Berline chic e spider da sogno E Lancia sedusse la borghesia

C'è ancora un grattacielo a Torino, in borgo San Paolo, appoggiato come un totem su due lati, sotto i quali si passava a piedi e in automobile, fieri di quella insegna di sei lettere che stava in cima ai quattordici piani: LANCIA.
L'insegna è sparita, come è sparita la palazzina verde pisello in via Monginevro, e lo stabilimento, all'angolo di corso Racconigi, il dopolavoro di piazza Robilant. Soltanto ruspe, polvere e progetti, di altro, di altri.
Il grattacielo è rimasto sempre al suo posto, deserto, inutile quasi, ultimo testimone di un'epoca torinese e nazionale che non esiste più.
La storia di cento anni è stata cancellata, Sergio Marchionne ha scritto la lapide. La Lancia è un ricordo che è sopravvissuto a fatica nei modelli e modellini contemporanei. L'Impero della casa madre, la Fiat, ha srotolato il tappeto nero sul tavolo da gioco di «Censin» Lancia che ai principi del secolo passato incominciò l'avventura.
Con cinquantamila lire e l'amicizia di Claudio Fogolin, Vincenzo Lancia decise di mettersi in proprio: già si dilettava alla guida delle vetture di Agnelli, già aveva fatto esperienza in quella fabbrica, ma era il tempo di provarci da solo. I primi anni del Novecento rappresentavano la spinta ideale per l'iniziativa privata e la scoperta del motore a scoppio segnava l'avvio di un'era di pionieri e di genialità italiana.
La Lancia è stata, a lungo, l'auto dei signori, dei borghesi, dei medici, degli avvocati, di quella classe di mezzo, non sbruffona, che evitava la sfacciataggine nervosa dell'Alfa Romeo e l'anonimo stile delle Fiat. Era un giocattolo più caro delle concorrenti ma, per questo, diversa dalle altre, per stile, per comfort, per eleganza.
L'album di fotografie di famiglia offre immagini bellissime: l'Aprilia e l'Ardea, quasi sempre di colore verde scuro bottiglia, veicoli di un'Italia sull'orlo del precipizio della guerra.
L'Aprilia fu messa sul mercato a 23.500 lire, l'Ardea a 26.500, mentre la 1100 Fiat stava a 20.750. La benzina razionata e il blocco della circolazione non frenarono l'affermazione dei due modelli. Il Dopoguerra, faticoso per tutti, ma non per l'industria automobilistica, portò al lancio della vettura del secolo, l'Aurelia, con tutte le sue variazioni dalla B20 alla B 12 e, in cima alla storia, la B24, lo spider disegnato da Pininfarina, celebrata da Gassman e Trintignant ne Il Sorpasso.
Quattro anni soltanto di produzione e di vita, proprio fantastici, l'ultima idea di avanguardia della casa torinese. Era l'automobile del sogno, della corsa nel vento, dell'acchiappo.
Di contro l'Appia rappresentò il modello casalingo ma dell'eleganza, quattro porte, due antivento, l'allestimento interno in panno azzurro, beige o in pelle, con un plaid per evitare di sgualcire quei paramenti, la guida a destra, l'autoradio senza antenna ma inserita nello specchietto retrovisore, il simbolo di una distinzione effettiva.
Vennero poi la Flavia e la Fulvia coupé HF, elegante, sportiva, vincitrice di rally, l'auto dei giovani rampanti, questa davvero la stazione di arrivo rivoluzionaria di Lancia prima dell'ammiraglia Flaminia riservata al capo dello Stato, classica, monumentale, da cerimoniale di sfilata. Sembra un elenco di caduti, tale è alla luce dei nuovi mercati, ma è l'annuncio di una sconfitta, violenta, tristissima, di un marchio italiano che ha fatto storia fino a quando ha potuto camminare con le proprie forze.


La morte prematura, per infarto, di «Censin», l'eredità prima di sua moglie, poi del figlio Gianni, il passaggio al gruppo Pesenti, con alcuni intrecci anche con il Vaticano, l'arrivo della Fiat sono stati gli ultimi chilometri faticosi e rassegnati di una azienda che per un secolo ha rappresentato non soltanto un marchio ma l'onore e l'orgoglio di essere italiani.
A Torino la gente passa ancora sotto il grattacielo di via Lancia. Ma non guarda più in alto.

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