Pier Luigi Bersani ricomincia a sperare in ciò che ha perseguito fin dall'inizio: la possibilità di formare una maggioranza tra Pd e frange più o meno ampie del M5S, oggi in crisi per le note vicende interne e in procinto - si dice - di spaccarsi in tre tronconi. Ma anche stavolta, come accadde nel marzo scorso, forse l'ex leader fa i conti senza l'oste: Giorgio Napolitano, dal quale dipendono i giochi.
Tre mesi orsono, l'allora segretario democratico, nonostante venisse respinto da Beppe Grillo in modo inequivocabile, fu insistente nel corteggiamento dei grillini al punto da apparire quasi ridicolo. In realtà sapeva che, qualora il Quirinale gli avesse dato il via libera, in qualche maniera sarebbe riuscito a ottenere in Parlamento i numeri per andare a Palazzo Chigi. Perché? Una parte non esigua dei pentastellati sarebbe stata pronta a supportarlo a costo di disubbidire al capo. Questo è poco ma sicuro, anche se non possiamo dimostrarlo. Il piano saltò a causa di un imprevisto: la rielezione a capo dello Stato di Napolitano. Che, una volta confermato per mancanza di alternative, invece di dare il via libera a Bersani chiamò Enrico Letta e gli affidò l'incarico di formare il governo delle larghe intese.
Fin qui è tutto chiaro? Ora che il M5S è sotto effetto sismico, il predecessore di Guglielmo Epifani medita la rivincita. Pensa che un rimescolamento di carte alle Camere riporterebbe d'attualità l'ipotesi di una coalizione identica a quella che egli aveva immaginato subito dopo il voto: Pd più una frazione cospicua di grillini. Il suo ragionamento starebbe in piedi se non contrastasse con le idee e le decisioni assunte dal presidente della Repubblica nel momento stesso in cui accettò di essere rieletto. Napolitano non scherza: quando accolse l'invito di vari politici, tra cui Silvio Berlusconi, a rimanere ai vertici dello Stato, pose condizioni precise: o si fa come dico io oppure non ci sto. Non solo: se a lavori in corso si dovesse sviare dalla rotta da me indicata, mi dimetterei. Fa fede il discorso che egli pronunciò a Montecitorio nell'ufficialità del suo secondo insediamento. I lettori rammenteranno.
E allora ci domandiamo come possa illudersi Bersani di ribaltare la situazione a proprio piacimento. Salvo imprevisti, il Quirinale non vorrà neanche sentire parlare di un rimescolamento della maggioranza. Qualsiasi sommovimento si verificasse all'interno del M5S, il Quirinale terrebbe la barra diritta e farebbe di tutto per dare continuità all'esecutivo di Letta appoggiato dai due schieramenti tradizionalmente avversari. Non sarà di certo Re Giorgio a benedire un ribaltone provocato da Bersani. Non potrebbe farlo se non rimangiandosi - cosa che non farà - la linea seguita fin dalla prima fase postelettorale. E, qualora si trovasse costretto a subire le manovre dell'ex segretario pd, supponiamo che manterrebbe la promessa di rinunciare alla presidenza.
Naturalmente questi sono ragionamenti nostri, ma, basandosi su elementi «storici», non hanno la caratteristica della gratuità. Napolitano non è tipo da girare la frittata a seconda delle convenienze e, piuttosto che piegarsi alle pressioni degli ex compagni, farebbe le valigie senza indugi. Se poi abbandonasse il Colle, il Paese precipiterebbe nel caos.
L'Italia non vuole darsi il presidenzialismo, eppure ce l'ha già. A sua insaputa. Bersani si metta il cuore in pace. La quaglia è volata via. Aspetti tempi migliori per rialzare la cresta.
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