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Bindi e Franceschini isolano Bersani che apre al Cavaliere

Gli ex Margherita accusano il leader di bloccare il partito: "Per governare serve l'appoggio di Berlusconi". E lui cede

Bindi e Franceschini isolano Bersani che apre al Cavaliere

Sarà anche stata una scelta tattica abile, quella bersaniana di anteporre l'elezione del nuovo capo dello Stato alla formazione di un governo. Ma non è stata lungimirante: nel lungo e snervante stallo che si protrarrà fino al 18 aprile, pieno di oscure trattative dietro le quinte su molteplici tavoli, il Pd sta diventando un formicaio impazzito. E Bersani è costretto ad avviare la giravolta, mandando il fido spin doctor Miguel Gotor ad annunciare che il famoso «governo del cambiamento» si può fare anche con Berlusconi, dopotutto. Perché «sarebbe sbagliato escluderlo o far finta che non sia il capo della destra italiana».
Dopo l'esplosivo rientro in campo di Matteo Renzi (che ieri, alla vigilia delle primarie, ha anche indicato in Paolo Gentiloni il sindaco di Roma che preferisce, contro quelli di apparato) vengono alla luce tensioni e linee divergenti, in un nuovo sabato di passione. Con Dario Franceschini che manda a dire a Bersani che se vuole proprio fare un governo, deve accettare l'appoggio di Berlusconi. Con Rosy Bindi che (in una intervista da lei smentita, ma riconfermata dal Secolo XIX) accusa Bersani di tenere «il partito fermo, senza prospettiva, perché lui non ha voluto rinunciare ma non sa più che fare». Con Nicola Latorre che invita a smetterla di «demonizzare Renzi» e avverte che, se si torna alle urne, il sindaco dovrà essere in campo perché serve «un candidato forte».
Dario Franceschini, in un'intervista al Corriere della Sera, forza con decisione la mano a Bersani: basta «complessi di superiorità» della sinistra, se non si vuole riprecipitare inesorabilmente verso le urne bisogna chiudere il capitolo dell'inseguimento ai grillini, e aprire il dialogo con Berlusconi. Sul Quirinale, certo, ma anche su «un governo di transizione, non un governissimo», perché «i numeri dicono che o si accetta un rapporto col Pdl o non passerà nessun governo». D'altronde, «ci piaccia o no, gli italiani hanno stabilito che il capo della destra è ancora lui».
In casa bersaniana l'uscita di Franceschini crea molto nervosismo. Il fido Davide Zoggia viene spedito a smorzarne l'impatto, assicurando che l'intervista «dice no al governissimo» e che quindi «rimarca il solco che Bersani considera strategico». Poi arriva Gotor, e apre al “giaguaro“. Mentre il franceschiniano Antonello Giacomelli assicura che l'intervista «non divide ma unisce il Pd. Serve un governo di transizione, non un governissimo, per le riforme e la crisi economica». «Da bravo ex Dc Dario ha capito che inesorabilmente si andrà a parare lì, a chiedere i voti di Berlusconi, e si è piazzato per primo visto che Bersani non lo voleva dire fino all'elezione del presidente. Così l'uomo del dialogo diventa lui», commenta un esponente della sinistra bersaniana. Peraltro Franceschini, insieme all'ala ex Ppi, lavora per un nome (Franco Marini) che non è nella wish list del segretario. In ogni caso, ieri dal fronte Pdl è stato un diluvio di apprezzamenti per la posizione di Franceschini, mentre lui apriva agli «8 punti» di Berlusconi: «Sono idee da mettere nel confronto». Ma tra le righe dell'intervista all'ex capogruppo c'è pure un avvertimento al segretario sul fronte interno: anche se si andasse a votare subito, «le primarie si farebbero lo stesso: indietro non si torna». E il partito dovrà «stringersi attorno a chiunque le vinca». Il nome di Renzi non si vede, ma c'è lo stesso.


Sulla linea delle larghe intese si schiera anche Nicola Latorre, secondo il quale «senza un'ampia, larga e bipartisan condivisione di intenti tra centrodestra e centrosinistra, un governo non si può fare».

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