La Boldrini vuol regalare l'Italia agli immigrati

di Dobbiamo consegnare le chiavi dell'azienda Italia ai migranti. Perché gli immigrati sono il futuro. Perché sono un valore aggiunto e perché hanno avuto il coraggio di venire fin qua. Laura Boldrini, neopresidente della Camera, parla a Radio anch'io e mette il turbo ad un terzomondismo datato con dichiarazioni che lasciano perplessi. Inzuppate, come sembrano, di un ottimismo retorico e, soprattutto, imbevute in un pregiudizio che sa di vecchio. E rimanda, o almeno così pare, a ideologie che a parole hanno abbattuto i muri e nella realtà ne hanno alzati di più alti, separando quel che prima era unito o si poteva mettere insieme. «I migranti - spiega Boldrini - sono le avanguardie del futuro. Io penso - prosegue la terza carica dello Stato - che dovremo imparare a rivalutare la figura del migrante non come il poveraccio che viene da noi, ma come qualcuno che ha coraggio, saperi, qualcuno che mette a disposizione la propria esperienza».
Peccato che, in questo susseguirsi di immagini alte e squillanti, Boldrini spinga ancora in su il separè fra il migrante e l'italiano doc. Col primo che arriva in casa nostra pretendendo di rimanere a casa sua. Portando di peso un pezzo di Romania, di Pakistan o di Cina a Milano, Roma, Padova, così come gli angeli trasferirono la Santa Casa a Loreto. E qui da noi costruisce ghetti, o se si preferisce un vocabolo più addomesticato, enclave, zone extraterritoriali dove valgono sempre e soltanto le abitudini e le usanze e perfino le leggi in vigore a migliaia di chilometri di distanza.
Ci spiace, ma non condividiamo questo approccio in cui accogliere non vuol dire dialogare e integrare ma prendere a scatola chiusa. Traslocando semplicemente un frammento di quel che è laggiù qua da noi. E camminando sul tappeto della nostra identità debole, della nostra confusa deriva, dei nostri buoni sentimenti che tutto sono fuorché sentimenti buoni.
Non ci piace questa genuflessione che scatta come un riflesso pavloviano. E che trova alimento in una cultura che descrive uomini belli, buoni e bravi, in realtà rintracciabili solo nei prototipi delle favole. Noi, siamo oltre. Noi abbiamo già in casa gli El Shaarawy e i Balotelli, i neri che giocano in nazionale e parlano bresciano. O i saltatori alla Howe che si esprimono con lo slang delle borgate romane. I nuovi italiani che non sono più migranti o figli di migranti, ma ragazzi che sono stati accolti, con le loro famiglie, e si sono fatti accogliere. Che hanno imparato la nostra lingua e il nostro inno, per quel che può valere, che rispettano le regole e le leggi come tutti i nostri connazionali dovrebbero. I nuovi italiani, appunto, amalgamati con i vecchi italiani in quel crogiolo perenne che è il nostro Paese. Un pentolone in ebollizione da migliaia di anni. Non ci piace marcare differenze che allontanano ancora e contrappongono gli uni agli altri: noi italiani, sempre avvolti da un vago senso di colpa, che dovremmo essere più generosi con chi è già generoso, più coraggiosi con chi è già coraggioso, più disponibili con chi è già tutto.
Non vogliamo nemmeno consegnare le chiavi di casa nostra e del nostro futuro a chi cambierà e stravolgerà l'arredo e la disposizione degli interni; no, vogliamo accogliere e saper accogliere chi è nato fuori ed è disposto ad inserirsi, rispettando flussi, norme e codici. Ci piace una casa che s'ingrandisca senza perdere la sua identità, la sua storia, il suo accento. Una casa che non diventi una babele, una giungla, la somma di tante isole che non comunicano.


La casa di tutti gli italiani, vecchi e nuovi, dei Rossi, dei Balotelli, dei Brambilla. E di quell'avanguardia del futuro cui Boldrini, quasi per decreto, vorrebbe concedere la patente della cittadinanza italiana.

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