Il ritorno di Tangentopoli, titolava ieri a tutta pagina La Repubblica: persino con una punta di soddisfazione, quasi di piacere. Perché Tangentopoli significa, nella neolingua dell'Italia giustizialista, che la politica è marcia e la società civile è sana, e soprattutto che il «controllo di legalità» esercitato dai pubblici ministeri è la sola risposta plausibile, e l'unica necessaria. Un'occasione troppo ghiotta per essere lasciata cadere alla vigilia di un voto particolarmente incerto.
«Purtroppo sì - ha subito chiosato Mario Monti, ospite ieri mattina di Agorà - siamo di fronte a qualcosa di molto simile a Tangentopoli: l'evidenza è molto simile, ma la speranza è minore». Lo stesso Napolitano, ieri in visita ufficiale alla Casa Bianca, ha ammesso di essere preoccupato «per l'eventualità di una nuova Tangentopoli». Con una differenza, ha aggiunto da Roma il premier: «Nel '92-'93 c'era quella che veniva percepita come un'azione liberatoria: si pensava che l'azione della magistratura e la coscienza dei cittadini avrebbero portato alla fine del fenomeno». E invece «siamo qui di nuovo». Qui dove? In un'Italia corrotta e corruttrice che finalmente esplode, oppure in un paese dove le procure casualmente concentrano la loro attività a ridosso delle elezioni?
«Tangentopoli» è la parola magica, la chiave che apre lo scrigno del tesoro, è il rito collettivo di autopurificazione dei «buoni» che mandano al rogo i «cattivi», e infine è il trionfo del sospetto, la scorciatoia giudiziaria, l'anatema lanciato contro l'avversario, sempre moralmente inferiore. Tangentopoli è il totem della Seconda repubblica, il Dio fondatore che oggi vorrebbe tornare a regnare indiscusso per la gioia dei tagliatori di teste (e di lingue). Tangentopoli è la proposta choc - non programmatica ma mediatico-giudiziaria - con cui una certa sinistra benpensante, più attenta a Formigoni che a Penati, tenta di riguadagnare il consenso perduto per vincere il 24 febbraio contro i «cattivi», i ladri, gli impresentabili.
Poco importa che le inchieste e gli arresti di questi giorni siano molto diversi tra loro, e non sempre, o soltanto incidentalmente, riguardino la politica. Poco importa che il contesto sia del tutto diverso, che i fenomeni criminosi siano assai più frammentati rispetto al «sistema» portato alla luce vent'anni fa, che i protagonisti e le vittime non siano paragonabili. E poco importa che l'opinione pubblica non creda più alle virtù salvifiche della magistratura - troppe inchieste sfumate nel nulla, troppi pm in politica - né al rinnovamento della politica, ma si appresti a tributare un trionfo elettorale a Beppe Grillo.
Agli orfani di Tangentopoli, teorici del «controllo di legalità» impiegato come clava nella lotta politica e maestri nello sputtanamento mediatico dell'avversario in nome della libertà d'informazione, il contesto storico appare come un teatrino dei pupi che può essere sceneggiato a piacere. L'importante è costruire il teorema, rafforzare la propria tesi, evocare il diavolo in persona. Ieri Massimo Giannini lo ha fatto, occupando l'intera terza pagina di Repubblica per spiegare ai lettori che «il Cavaliere tenta di imitare Craxi» e che «l'uomo di Arcore ragiona come l'esule di Hammamet».
Proprio come allora, quando ci furono i sommersi e i salvati, e un'intera classe di governo scomparve mentre l'opposizione si curava qualche graffio, anche oggi secondo Giannini è bene usare due pesi e due misure: «Nessuno nega la serietà di inchieste che riguardano direttamente la sinistra - scrive nel suo saggio storico - ma le corruzioni e le concussioni vere, in questi diciassette anni, sono state il pane quotidiano della destra».
E così il cerchio si chiude: l'evocazione di Tangentopoli non serve a fare informazione, né tantomeno giustizia.
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