Care mamme, per salvare i figli servono i papà

È la donna che legittima la figura paterna. Ma se questa sparisce, i ragazzi crescono insicuri e arrendevoli. Perché non conoscono più l’essere "maschi"

Care mamme,  per salvare i figli servono i papà

La paternità, oggi, è qualcosa di diverso rispetto a pochi decenni fa: un dato di fatto, in una società ormai «mammocentrica», dove cioè le mamme sembrano farla da padrone. E il padre che cosa fa, che rapporto ha o dovrebbe avere col figlio? Lo racconta, attarverso riflessioni e soprattutto attraverso la sua esperienza personale, Stefano Zecchi nel suo nuovo libro, «Dopo l’infinito cosa c’è, papà?», in uscita per Mondadori. Lui, che è diventato padre a 59 anni, e che per il figlio è disposto a rinunciare a qualunque impegno. Pubblichiamo una parte del primo capitolo del libro.

La madre possiede un pote­re smisurato: quello di le­gittimare o erodere, fino a farla sparire, l’immagine del pa­dre. È lei che gli assegna la funzio­ne paterna. Se questo non accade, se la moglie non riconosce uno spazio d’azione al marito, una di­mensione assolutamente sua che lei non possa invadere, provoca – da irresponsabile – l’assenza del ruolo paterno e commette un’in­giustizia verso il marito che mina alla base la stessa struttura fami­gliare e con essa il sistema educati­vo. Le madri di oggi hanno gene­ralmente un proprio lavoro, una professione che dà loro molta au­tonomia, che comporta responsa­bilità, obblighi decisionali, scelte impegnative (...). Proprio per que­sto tipo di vita (...) la madre tende a surrogare le funzioni paterne. Senza volerlo – nel migliore dei ca­si – finisce per assumere anche in famiglia quelle responsabilità, quei ruoli decisionali che dovreb­bero essere del padre (...).

Le conseguenze, più generali, sono sotto gli occhi di tutti. Senza un suo ruolo specifico, sollevato dai propri compiti, il padre ha un alibi perfetto (fornitogli dalla mo­glie) per disinteressarsi della famiglia e dell’educazione del figlio. «Chi me lo fa fare?» pensa, e dice: «Vuol fare tutto lei! Perché devo mettermi a discutere, contrattare, litigare… Cresca lei i figli come vuole!». Chiude la porta e arrive­derci, ovviamente con la disappro­va­zione della moglie che non gli ri­sparmia critiche tutte le volte che lo vede, mentre proprio lei dovreb­be farsi un vero esame di coscien­za che potrebbe rimettere a posto la relazione.

Ma c’è anche il padre che reagi­sce diversamente. Affettuoso no­nostante tutto, desidera essere vi­cino al figlio e alla moglie (...). E fi­nisce per fare il «mammo», cioè il collaboratore domestico della mamma.Per un po’ è felice,si tro­va ad affrontare funzioni nuove, compiti prima di allora sconosciu­ti: la madre è contenta, il figlio gli sorride, lui si commuove. Con il passare del tempo si accorge però che quel ruolo è umiliante, che l’ape regina lo costringe a fare il fuco. Il ruolo di mammo è una rinun­cia alla sua virilità, a quella virilità che dovrebbe essere alla base del­la sua educazione del figlio. Ecco il povero papà-mammo immalin­conirsi. Non può reagire: e come farebbe? Non vuole sbattere la porta e andarsene, ma vorrebbe fare il papà, non il mammo! Non sa più che pesci prendere.

È inutile andare a spiare il mam­mo a casa sua (...) C’è però un luo­go p­ubblico in cui si riconosce im­mediatamente il mammo: il su­permercato. È impossibile non identificarlo:lo vedete un po’ cur­vo spingere faticosamente il car­rello della spesa come il condan­nato ai lavori forzati spinge la car­riola piena di pietre che ha appe­na finito di spaccare con le sue nu­de mani. Davanti a lui la moglie­madre impettita, sicura di sé, ince­de con passo ardimentoso, affer­rando dallo scaffale di destra il pacco di pannolini, da quello di si­ni­stra la confezione di omogeneiz­zati. Li getta nel carrello senza nep­pure voltarsi per vedere dove van­no a finire, perché tanto sa che il marito è esattamente un passo dietro a lei. Il mammo procede spingendo il carrello pesante, con lo sguardo vago, assente. Voi cre­dete che stia sognando spiagge ca­raibiche, palmeti, mari cristallini, ragazze in costume adamitico… No. Lui sta sognando l’ufficio. Quello è il suo regno! I colleghi, i di­pendenti, il principale, discussio­ni, liti, decisioni, in cui la moglie non può ficcare il naso. Quello è il suo vero mondo, dove si sente rea­­lizzato, lo spazio dove ha un pro­prio ruolo: non la famiglia, in cui si sente un disperso e non sa cosa fa­re, in preda ai dubbi sulla propria identità. Anche come mammo (...) non è niente. Svirilizzato. Se la percentuale maggiore di padri si suddivide in fuggiaschi, cioè quel­li che se la danno a gambe perché tanto con i figli è la madre a voler fare tutto, e mammi, è chiara la ra­gione per cui oggi si vive in una so­cietà mammizzata, dove cresco­no adolescenti insicuri, impauri­ti, che si arrendono di fronte a mo­deste difficoltà e crollano al primo insuccesso perché non hanno avuto quell’esperienza della real­tà e quell’apertura al mondo che si riceve attraverso l’educazione paterna (...).

La madre, oggi, deve saper fare un passo indietro: sia lei a spinge­re il carrello della spesa e lasci (suggerisca, invogli) il marito a giocare con il figlio, perché gli tra­smetta la sua maschilità e quella rappresentazione della vita che gli consentirà la formazione di un’identità precisa. Poi, nell’ado­lescenza, il figlio avrà tempo di mettere in discussione il quadro educativo, «la legge del padre», ma se, durante la propria espe­rienza di formazione, ha avuto a che fare solo con la figura materna o un suo simulacro, quello del mammo, non avrà né consapevo­lezza della propria identità, né punti di riferimento reali con cui confrontarsi.

Solo interiorità, solo la carezza della mamma che, com­pletamente diversa da quella del padre, lo tiene lontano dalla vita vera. Alla prima difficoltà, questi giovani mammizzati si perdono, credono che tutto sia vano, diven­tano indifferenti. E l’indifferenza può esplodere nel nichilismo più violento contro gli altri e contro se stessi.

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