Il Giornale si è già occupato, con due suoi autorevoli commentatori (Giordano Bruno Guerri e Luca Doninelli), della suora che ha partorito un bambino, chiamato Francesco, suscitando un certo scalpore nell'opinione pubblica e imbarazzo nella Chiesa. Ovvio. Episodi del genere non succedono tutti i giorni. La puerpera, a mio personalissimo parere, ha fatto bene ad affermare il desiderio di tenersi il bimbo e a rifiutare l'aiuto delle consorelle che, pure, hanno dichiarato di essere pronte a darle una mano.
Solidarietà a parte, sempre apprezzabile, la vicenda pone un problema di non facile soluzione e, quindi, drammatico, che vorrei affrontare. È vero o no che la religione (nella fattispecie cattolica) è rimasta un'isola nella quale la discriminazione femminile è praticata disinvoltamente? Temo di sì. Nel trattare la questione di suor Roxana, salvadoregna, ospite fino ad alcuni giorni orsono di un convento delle Piccole Discepole di Gesù, a Rieti, gli esperti del ramo hanno detto che la monaca, non avendo resistito alla tentazione (della carne), deve lasciare la comunità. Infatti è venuta meno al solenne voto di castità, pronunciato al momento di entrare in convento, e ciò contrasta con le regole.
Il ragionamento sembra non fare una grinza. Ma c'è un ma. Perché se un prete, o un frate, cede alla famosa tentazione, e viola l'impegno alla purezza, non viene espulso e il suo peccato è tollerato, quantomeno coperto per non destare scandalo, mentre se è una suora a fare altrettanto non si salva ed è costretta a togliersi la veste con tanti saluti alla propria vocazione? Si dirà che una donna non casta prima o poi rischia una gravidanza e di dare alla luce un bambino (difficilmente occultabile); un sacerdote o un monaco, che pure ne combini di ogni colore, invece non lascia traccia. Realisticamente è così.
Il punto è proprio questo. Bisogna stabilire se la castità è un principio basilare per un religioso oppure una formalità (un omaggio alla tradizione), ma non tanto importante da meritare la radiazione di chi non vi si attenga. Nel primo caso, se cioè la castità è un principio basilare, deve esserlo per tutti, maschi e femmine, e coloro i quali trasgrediscono sono pregati di andarsene senza tante storie. Nel secondo caso, non ha senso che le gerarchie siano di manica larga nel giudicare le scappatelle di curati e parroci (tra i quali, bisogna ricordare, non mancano attivissimi pedofili, autori di reati odiosi e infamanti) e che, viceversa, siano severe con le madri superiori, o inferiori, e le scaccino dai conventi soltanto perché natura vuole che i frutti dei loro peccati, a differenza di quelli dei «colleghi», siano talmente visibili e concreti da finire nelle culle.
Si obietterà che un monastero non può essere trasformato in una nursery.
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