Il cabaret di Renzi: un fiacco repertorio di luoghi comuni

L'aspirante leader che vuol far ridere. Per il Cavaliere è un "battutista che non regge". Infatti il suo linguaggio è mediocre e retorico

Il cabaret di Renzi: un fiacco repertorio di luoghi comuni

Tra animazione da villaggio vacanze ed esibizioni da boy-scout s'annida il destino del Pd, che alle primarie dell'Immacolata saluterà l'avvento di Matteo Renzi, il cool-segretario, sulla poltrona (metaforicamente parlando) di Togliatti e Berlinguer. Tutt'altra verve mostra il ragazzo di Rignano sull'Arno che Berlusconi, uomo di mondo, ha incoronato principe della risata, reginetto dei «battutisti». Detto dal Cav, che sulla magia della comunicazione effervescente ha costruito un ventennio, ci si può credere. Matteo ci crede: «Può succedere che Berlusconi dica parole che noi condividiamo, che il gruppo dirigente condivide...». Sveglio il ragazzo. «Simpatico», ha scritto Scalfari. «Alla Ruota della fortuna il diciannovenne Renzi già mostrava grande ingegno e gran spiritosaggine», ha detto Epifani. Non sfugga la rivoluzione in atto, l'«alterità» del giocoliere verbale rispetto ai parrucconi del partito, il «battutismo» che si trasforma in «spiritosaggine» (notare il sussiego) o peggio. «Detesto la politica fatta solo di battute» (Enrico Letta dixit).

Meglio chiedersi piuttosto, senza spocchia, se il linguaggio renziano funzioni o no. Un linguaggio mediocre, povero, basato su stilemi televisivi, logore frasi fatte, pedanti frasi retoriche. Senonché, articolato nel contesto renziano, ribaltato in preziosi calembour, s'innalza nell'iperbole e finisce per specchiarsi se non nell'Arno, almeno nel quotidiano dell'elettore che spara facezie al bar, dunque motivando le attuali fortune e scalate del cool-sindaco. Parafrasando Eco in una rinnovata fenomenologia, l'«elettore circuìto da Renzi è, in fondo, fra tutti i suoi simili, il più rispettato: non gli si chiede mai di diventare che ciò che egli è già». Quello che Matteo presenta spesso come bivio generazionale tra fare «i polli di batteria o avere il coraggio di usare un linguaggio diverso» è, nella realtà, la lingua mediocre che si ascolta in qualunque luogo della nostra fatica quotidiana. Dunque facile e comprensibile. Ma con in più l'arguzia popolare, specie negli aforismi giocati sul calembour, il suo pezzo migliore, preparato con arte e meticolosità d'attore.

«Se c'è qualcuno abituato a salire sul carro per convenienza, sappia che noi siamo abituati a farli scendere». «Io non tramo, ma non tremo», sorprendente parafrasi del mussoliniano «marciare e non marcire». «Voglio una sinistra che pensi di più a bambini e giardini e un po' meno alle coop di costruttori». «Non è mancato il voto utile, è mancato il voto umile». Capitolo a parte meritano le querelle con gli avversari. Il rottamatore oggi asfaltatore mostra destrezza e perfidia fiorentina di primo pelo. «Non andare lì, mi dicono, se no Berlusconi ti dà la mano. E se me la dà, gliela rendo». Oppure: «Monti poteva fare il Ciampi ma ha deciso di fare il Dini». Ancora: «per dire che Firenze affoga nei debiti bisogna non capire nulla di nuoto o non capire nulla di economia. E Beppe Grillo in effetti nuota bene». «Casaleggio ricorda Patty Smith». «Berlusconi è più altalenante dello spread». «Pensare di rinnovare la politica con Casini e Fini è pensare di circumnavigare capo Horn con il pedalò».
Ma il luogo comune è una brutta bestia che spesso tende l'agguato a Matteo. Insistere troppo, per esempio, sulla saga dei «giaguari» e dell'intera fattoria dai «liocorni» alle «pitonesse», passando per gli «avvoltoi» (non se ne può più). Ed è soprattutto nei momenti di pausa (quando anche Omero dorme) che si avverte l'origine televisionesca del mondo renziano, fatto di «dopo di loro non c'è il diluvio, salto della quaglia, per loro è l'ultimo treno, l'ultima chiamata» e via dicendo. «Alla lunga non regge», sospetta il Cav, che pure inventò Drive in, dopo accurato studio del giovanotto.

«Arriva il momento in cui il coraggio deve essere più forte della comodità e la speranza deve prendere il posto della rassegnazione», non ha paura di dire Matteo. In effetti ci sono momenti nei quali arriva una vena triste, bolsa, trita e ritrita, capace di rovesciare in negativo la sua verve, che cade vittima della retorica politica. Quella della «signora che fa i tortellini alla festa dell'Unità di Modena», della «bella gente che c'è fuori dal Palazzo», della politica che è «costruzione di speranza possibile». «Un'altra Italia è possibile.

Per noi, un'altra Italia è già qui: basta farla entrare». E basta che poi qualcuno chiuda la porta, e lasci tutto in ordine. Salvando Matteo da se stesso, dal «battutista» che c'è in ciascuno di noi. Sventurato, quando si prende troppo sul serio.

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