La Cgia di Mestre: tra il 2008 e il 2011 aziende cresciute del 26%

Sono lontani i tempi in cui i ristoranti cinesi erano gli unici esempi, rari e quasi folcloristici, della presenza in Italia della comunità orientale. Involtini primavera, ravioli al vapore, pinne di pescecane. Nel tempo le attività hanno cominciato a estendersi: negozi di paccottiglie, bar, scarpe, abbigliamento, borse e poi barbieri, parrucchieri, rivenditori e riparatori di telefonini. La fortuna dell'imprenditoria cinese ha avuto due basi fondamentali: l'industriosità, l'innato spirito commerciale di un popolo comunista al quale Den Xiaoping ha riconosciuto l'«orgoglio» di arricchirsi; e la crisi, che ha costretto i consumatori italiani a orientarsi sempre di più verso l'offerta low cost.
La Cgia, Associazione artigiani di Mestre, ha condotto un'indagine dalla quale emerge che l'imprenditoria cinese non ha subito rallentamenti dalla crisi, anzi: tra il 2008 e il 2011 le imprese sono cresciute del 26%. Oggi sono circa 60mila in Italia e si concentrano in Lombardia (11.922 attività), Toscana (10.854) e Veneto (6.939). Queste tre Regioni rappresentano il 51% del totale. Va ricordato che solo poche settimane fa un artigiano cinese, Wang Li Ping, è stato eletto vicepresidente della Cna Prato, un'area dove è fortissima la concentrazione di manifatture tessili cinesi, 50 delle quali sono affiliate alla Cna.
«In passato - commenta Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia di Mestre - i settori più caratterizzati dalla presenza di attività guidate da cinesi riguardavano la ristorazione, la pelletteria e la produzione di cravatte. Poi le loro iniziative imprenditoriali si sono estese anche all'abbigliamento, ai giocattoli, all'oggettistica e alla conduzione di pubblici esercizi». Per la Cgia, ormai il 70% del totale delle imprese presenti nel nostro Paese si concentra nei servizi: settore che consente, a differenza del manifatturiero, un grande riflusso di capitali verso la Cina. «L'anno scorso, a fronte di 7,4 miliardi di euro che gli immigrati residenti in Italia hanno inviato nei Paesi di origine - continua Bortolussi - 2,5 miliardi, pari al 33,8% del totale, sono stati spediti dalla comunità cinese». Nel quadriennio esaminato, le rimesse sono state pari a 7,87 miliardi, con un incremento del 65% tra il 2008 e il 2011.
Ma non mancano i problemi. «Innanzitutto - sostiene Bortolussi - si tratta di una comunità poco integrata, perché la quasi totalità dei lavoratori non parla la nostra lingua. Inoltre, buona parte di queste attività, soprattutto nel manifatturiero, si sono affermate eludendo gli obblighi fiscali e contributivi, aggirando le norme in materia di sicurezza sul lavoro e non rispettando i più elementari diritti dei lavoratori occupati in queste aziende che, quasi sempre, provengono anch'essi dalla Cina (e spesso vivono in forme di semi-schiavitù, ndr). Questa forma di dumping economico ha messo fuori mercato filiere produttive e commerciali di casa nostra. Tuttavia è giusto sottolineare - conclude Bortolussi - che gli imprenditori italiani non sono immuni da responsabilità. In molte circostanze, coloro che ancora adesso forniscono il lavoro a questi laboratori produttivi cinesi sono committenti italiani che fanno realizzare parti delle lavorazioni con costi molto contenuti. Se queste imprese committenti si rivolgessero a dei subfornitori italiani, questa forte riduzione dei costi non sarebbe possibile».
Fatto 100 il totale delle imprese cinesi in Italia, il 38,7% appartiene al commercio (con 22.524 piccoli imprenditori ) e il 29,4% nel manifatturiero (17.104 unità aziendali). Tra questi ultimi, il 94,3% (pari a 16.

122 imprese) sono attività del tessile, dell'abbigliamento, delle calzature e della pelletteria. Significativa la presenza anche nel settore alberghiero e della ristorazione: le attività condotte da titolari cinesi hanno raggiunto le 11.183 unità.

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