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"Io camorrista, oggi sarei libero se avessi accusato Berlusconi"

Il pentito Fiore D'Avino, uno dei boss della Nuova Famiglia campana, rivela: "Volevano che incastrassi il Cavaliere dicendo che aveva i soldi di Bontade"

«Mi sarebbe bastato dire che Silvio Berlusconi aveva i soldi di Stefano Bontade e sarei stato scarcerato. Me lo consigliò un compagno di cella, uno che si chiamava Pietro Cozzolino. Ma non l'ho fatto perché io non parlo di ciò che non conosco». A distanza di tantissimi anni dalle sue gesta criminali parla Fiore D'Avino, il più importante collaboratore di giustizia campano degli anni Novanta, uno dei capi della Nuova Famiglia, il maxi-cartello criminale che soffocò nel sangue le armate cutoliane. Dopo essersi confrontato con chi gli sta più vicino ha deciso di rivelare a Il Giornale ciò che, in diciott'anni di regime di protezione, ha nascosto pure ai magistrati. Lui lo fa ben sapendo di assumersene tutte le responsabilità, anche penali, e di poter contare solo sulla sua parola. Ma di questo non sembra preoccuparsi troppo. «Se per i giudici sono credibile, e per loro lo sono, allora questo deve valere sempre. No a fasi alterne».

Noi registriamo le sue parole così come ce le ha riversate, consapevoli sempre della scivolosità e della delicatezza dei racconti dei collaboratori di giustizia, una categoria che non ci appassiona. Occorre andarci cauti due volte coi pentiti, soprattutto quando in mezzo c'è il Cav, argomento tra i più gettonati nelle aule di tribunali e procure. Il racconto di D'Avino inizia nel carcere di Paliano, in provincia di Frosinone. È il kibbutz dei pentiti delle mafie italiche. Il penitenziario dove vanno a finire quelli che stanno iniziando a flirtare con la giustizia. D'Avino ci arriva a metà del 1995 con un pedigree camorristico da primo della classe: capozona di Somma Vesuviana poi mammasantissima al pari di Carmine Alfieri, Mario Fabbrocino e Pasquale Galasso; nomi storici della storia del male vesuviano.

«Spesso, durante la detenzione, mi avvicinava Pietro Cozzolino, uno della famiglia malavitosa di Ercolano. Era gente che trafficava droga e che era in rapporti con la mafia siciliana. Mi avvicinava e mi incitava a farmi interrogare dai magistrati su alcune cose del clan. Era insistente. Poi, un giorno mi ha riferito, proprio così, testuale: vuoi uscire subito? Accusa Berlusconi e dici che aveva i soldi di Stefano Bontade».

Perché? E, soprattutto, che interesse aveva Cozzolino a veicolare questo messaggio e per conto di chi? «Ho pensato che potevo andare bene, per una cosa del genere, perché sarei stato credibile. Conoscevo Salvatore Zaza, appartenente alla prima famiglia mafiosa di Napoli collegata con Badalamenti e, quindi, con Bontade. Zaza era in rapporti anche con Michele Greco. Personalmente, conoscevo Antonino Salomone, il capomandamento di San Giuseppe Jato prima dell'arrivo dei Brusca. Conservo ancora le foto con lui. Avevo rapporti con Alfredo Bona, i fratelli Enea e con Fidanzati (il boss Gaetano, esponente di primo piano della mafia siciliana trapiantata in Lombardia, ndr). Pure con Nunzio Guida, che era napoletano, ero in contatto. Tutti questi si trovavano a Milano».
Il binario maledetto Palermo-Milano, fermata Napoli. Dunque, se avesse sganciato la bomba, per storia personale e per caratura criminale, nessuno avrebbe dubitato di lui. «Io andavo spesso a Milano, a corso Buenos Aires. Queste persone trattavano la droga, a me è capitata solo una volta la sfortuna di farla ma allora ero un ragazzo. Quando sono diventato un capo, non ho più voluto avere niente a che fare con gli stupefacenti». Perché parlare solo ora, però, rivelando questa «proposta indecente»? «Perché avrei dovuto farlo prima? Ho sempre cercato di stare fuori da questa storia. Io non parlo di cose che non conosco e che ritengo pure false. Avevo un'idea della giustizia, poi mi sono accorto che non corrispondeva sempre alla realtà. E questa scoperta l'ho vissuta sulla mia pelle».

I verbali d'interrogatorio di D'Avino hanno scardinato mezza prima Repubblica napoletana. La corrente di Antonio Gava («Di lui non ho parlato perché non conoscevo i fatti») l'ha smantellata quasi da solo, parlando dei rapporti malati all'interno della Dc. Che sarebbero arrivati su su, fino ai vertici. «Due big della Democrazia cristiana erano diventati referenti di Cosa nostra. L'ho detto alla Procura di Napoli, che ha pure secretato gli interrogatori. Ne ho parlato con due pm antimafia napoletani. Sono stato pure sentito sulla trattativa Stato-mafia, ma di quella storia so nulla».

Non gli sembra un'esagerazione che uomini politici che hanno fatto la storia degli ultimi trent'anni possano essere stati in intelligenza con il Nemico. «Ai magistrati ho detto che uno dei capi della Dc era diventato il referente di Cosa Nostra». E la fonte di un'accusa così grave e indimostrata? Il solito telefono senza fili della criminalità organizzata. «Me l'aveva detto Pasquale Russo», un padrino della Nuova famiglia recentemente arrestato in provincia di Napoli dopo oltre dieci anni di latitanza. «A quell'epoca, decisi di farmi i fatti miei. Mi consigliarono questa scorciatoia di Berlusconi per anticipare il momento in cui avrei lasciato la galera, ma non ho voluto. Sono una persona seria, io. Ero convinto che, dall'altra parte, dalla parte dello Stato, le cose andassero per il verso giusto. Purtroppo, non è sempre così».

Nei giorni scorsi ha sentito il bisogno di rettificare in modo piccato, nero su bianco, le parole dei politici che consegnavano all'associazione del Forum dei giovani di Somma Vesuviana un bene confiscato alla sua famiglia. Adesso ci torna di nuovo su: «Ci hanno sequestrato appezzamenti di terreno e beni nell'ambito di inchieste sulla criminalità organizzata in cui i miei parenti non risultano in alcun modo coinvolti. Mia moglie è incensurata, proviene da una famiglia perbene. I miei zii hanno ereditato quei suoli dal loro papà, mio nonno.

Che c'entrano con le inchieste a mio carico? I giudici, l'Agenzia dei beni confiscati, la Cassazione nessuno si è accorto di quest'enorme ingiustizia che danneggia la mia famiglia. Non mi arrendo, comunque. Dovrebbero saperlo ormai».

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