La condanna a 14 mesi è inquietante: pena sproporzionata Così facendo la Cassazione non si è dimostrata imparziale

diSallusti ha impartito un'impareggiabile «lezione ai gendarmi che lo vogliono libero dopo averlo condannato alla prigione». Le leggi son, ma chi pon mano ad esse? Nel 2009 Sallusti è condannato, in primo grado, a 5.000 euro di multa per omesso controllo. Dopo cinque anni dai fatti (e quindi in tempi insolitamente brevi), la V Sezione penale della Corte di Cassazione, confermando la condanna a un anno e due mesi di reclusione, già applicata al Sallusti dalla Corte di Appello di Milano, per diffamazione aggravata, rigetta il ricorso del medesimo.
Il rispetto che, ancor più come magistrato in pensione, debbo alla sentenza, non mi impedisce di manifestare la mia perplessità per una decisione che appare davvero inquietante. E ciò trova implicita conferma nella nota, abbastanza irrituale, con cui l'ufficio stampa della Cassazione ha chiarito che l'articolo 595 del codice penale prevede la reclusione in carcere, da uno a cinque anni, oltre la multa, per chi, come avvenuto nel caso di Sallusti, commetta diffamazione aggravata e omesso controllo. La preoccupazione di giustificare il proprio operato - la classica excusatio non petita - rivela un certo impaccio dei giudici, dopo il clamore suscitato da tutti i «pronunciamenti» – per lo più ipocriti – che si sono susseguiti, dal Quirinale in giù, contro l'incarcerazione di Sallusti. È intervenuta persino l'Osce, che ha chiesto all'Italia di adeguarsi alle norme internazionali. E infatti, la summenzionata sentenza di condanna, confermata in Cassazione, è in contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell'uomo, che garantisce la libertà di stampa. La misura detentiva per la diffamazione è dunque un'anomalia del nostro Belpaese, che viene così a trovarsi ai margini della civiltà giuridica occidentale, come del resto ha sancito anche la giustizia europea. E di ciò avrebbero dovuto farsi carico i giudici della Suprema Corte, e di non ignorare l'interpretazione delle norme contenute nella Convenzione data dalla Corte di Strasburgo.
A me preme soprattutto riflettere sulla circostanza fondamentale e, cioè, se la pena della reclusione irrogata appaia commisurata al reato in questione. Considerato, però, che la motivazione della sentenza non è stata ancora pubblicata, possiamo ragionare soltanto sulla pena inflitta al Sallusti: un anno e due mesi di reclusione per diffamazione aggravata e omesso controllo.
Le leggi son, ma chi pon mano ad esse? Così scrive Dante, nel Canto XVI del Purgatorio – 97, riferendosi alla confusione dei poteri tra Chiesa e Stato, con la conseguente non corretta applicazione delle leggi. Una lezione che, mutatis mutandis, è ancor oggi di attualità. E qui torna la questione di fondo di questa nota: il delicato compito del giudice d'infliggere una pena che sia commisurata, appunto, al reato commesso. La persona offesa da un giornalista, giustamente pretende un congruo risarcimento, ma non credo che abbia interesse a mandarlo in galera. Peraltro, la sentenza suscita inquietudine per la sua kafkiana implacabilità. Dalla motivazione della sentenza di appello, confermata dalla Cassazione, apprendiamo, poi, che non è stata concessa la sospensione condizionale per l'impossibilità, essendo Sallusti recidivo, di formulare una prognosi favorevole e ritenere che egli si asterrà in futuro dal commettere ulteriori «episodi criminosi». Nel caso in esame si tratta di omessi controlli e cioè di reati colposi per definizione. Pertanto, la ritenuta pericolosità del soggetto appare - per usare un eufemismo - una forzatura.
L'inedita condanna al carcere per un commento giornalistico - oltre tutto scritto da altri - in base ad un'anacronistica disposizione penale, applicata senza alcun tipo di attenuante e che sanziona una responsabilità oggettiva, lascia interdetto il cittadino. Se la legge è sbagliata, la magistratura aveva il potere di applicarla o meno.

Se ha ritenuto di applicarla, lo si deve a quella sorta di perverso meccanismo di cui ho detto prima, nonché alla circostanza di non aver considerato né l'insanabile contrasto della sentenza di condanna con la Convenzione europea dei diritti dell'uomo, né il dovere che ha il giudice di apparire imparziale e non solo di esserlo.
*Presidente aggiunto
Corte di Cassazione

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