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La Corte dei conti elogia il giudice punito e cacciato

Sanzione dimezzata per Edi Pinatto, radiato per aver scritto una sentenza dopo 8 anni. Il verdetto: "Colpa del sistema"

Condannare sì, lo hanno condannato. E non poteva essere altrimenti visto che Edi Pinatto, l'ormai ex magistrato - è stato rimosso dall'ordine giudiziario nel 2009 - che impiegò quasi otto anni (sette anni, tre mesi e 14 giorni per l'esattezza) per scrivere la sentenza di un grosso processo di mafia causando la scarcerazione di alcuni boss, è una sorta di emblema della giustizia lumaca in Italia. Ma la sentenza numero 2.583 del 2013, quella con cui la sezione siciliana della Corte dei conti, lo scorso 3 luglio, ha condannato Pinatto al risarcimento di 10mila euro di danno al ministero della Giustizia (che ne chiedeva quasi 20mila, quelli versati alle vittime dei ritardi di Pinatto, ndr), più che una condanna, sembra una carezza. Di più, un elogio. L'elogio di un povero magistrato che ha sì sbagliato, ma per colpa del sistema giustizia, che ha piazzato lui, giudice ragazzino alle prime armi, a svolgere compiti troppo grandi.

Si chiude così, con un verdetto contabile scontato del 50% rispetto alla richiesta, un caso che nel 2008 ha tenuto banco per mesi. Pinatto, all'epoca pm alla procura di Milano, finì sotto accusa perché alcuni boss di Gela (Caltanissetta), coinvolti nel processo «Grande Oriente», erano tornati in libertà per il mancato deposito delle motivazioni, a quasi otto anni dal verdetto che lui stesso aveva pronunciato nel 2000, quando era giudice nella cittadina nissena. Lui si difese in ogni modo. Sostenne che era stato mandato allo sbaraglio a Gela, che era stato costretto, da magistrato di prima nomina, a svolgere il ruolo di presidente supplente, che poi alla fine, trasferitosi a Milano, si era trovato con cumuli di arretrato tali che, sommati al lavoro ordinario, erano impossibili da smaltire e che lo impegnavano anche in ferie. Invano. Tra clamore della vicenda e intervento del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, a Pinatto fu inflitta la massima pena, la radiazione dall'ordine giudiziario. Una rarità, toccata, dal 2006, ad appena otto toghe.

Ora la parziale riabilitazione dei giudici contabili. Che accolgono quasi in pieno le sue giustificazioni. Pur riconoscendo la «colpa grave» di Pinatto, la Corte dei conti usa i guanti bianchi: «Occorre tenere conto delle disfunzioni di apparato, fra cui la concentrazione di compiti estremamente gravosi su di un magistrato che non era idoneo a farvi fronte a causa della sua inesperienza». La sentenza ricorda che Pinatto «con solo due anni di anzianità, appena subito dopo la nomina a magistrato di Tribunale, era stato chiamato a presiedere l'unica sezione penale del tribunale di Gela», e che «contestualmente ricopriva anche il posto di presidente del Tribunale». Non solo. I giudici contabili sottolineano che il magistrato si trovò a dover fronteggiare «numerosi giudizi con detenuti, trattandosi di territorio interessato da fenomeni di criminalità organizzata». E non basta. Si dà atto che Pinatto nel resto della sua carriera «ha assolto i propri compiti con impegno, capacità e diligenza, come risulta dalla documentazione relativa ai carichi di lavoro e dalle attestazioni di numerosi colleghi operanti presso la sede giudiziaria di Milano», e che «mantenendo una casa in locazione a Gela, dove si recava durante le ferie per smaltire l'arretrato, ha, di fatto, tenuto un comportamento volto ad attenuare il danno». Sotto accusa finisce invece il sistema giustizia: «La predisposizione di misure di natura organizzativa, oltre che di iniziative sollecitatorie e sanzionatorie, avrebbe potuto circoscrivere il ritardo». Insomma, Pinatto è colpevole. Ma anche no. Di qui la decisione, salomonica: 10mila euro di risarcimento.

E 455 euro di spese di giudizio.

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