Così Prodi ha salvato 119 enti inutili

Il governo aveva dichiarato che ne avrebbe soppressi 130. Ne ha smantellatoi solo 11. Da chi tratta e cellulosa: carrozzoni rimasti in piedi da decenni

Così Prodi ha salvato 
119 enti inutili

Milano - Gli enti inutili sono come i pidocchi. Tanti, tantissimi, non si sa con precisione neppure quanti siano. Sono fastidiosi, costosi, non servono a nulla e per di più sono difficilissimi da eliminare. Ogni governo dichiara guerra ai baracconi di Stato; ogni governo perde in partenza. Anche Prodi ci ha provato. Inutilmente. Il ministro dell’Economia Padoa-Schioppa - come ha notato l’Espresso - aveva stilato una lista di ben 130 enti da sopprimere. È riuscito a cancellarne appena 11.

Tra questi, sono stati definitivamente sepolti il Pio istituto elemosiniere, l’Istituto di beneficenza Vittorio Emanuele III, l’Opera nazionale per i figli degli aviatori, l’Unione nazionale ufficiali in congedo, l’Unione italiana tiro a segno. Restano invece in vita l’Istituto nazionale studio ed esperienza architettura navale, il Fondo bombole di metano, l’Ente italiano montagna e la Fondazione Marconi. E ancora: vive l’Ente per la carta e la cellulosa, l’Associazione nazionale controllo combustione, la Cassa conguaglio zucchero, decine e decine di Casse mutue provinciali di malattie per gli artigiani di ogni provincia italiana. E poi: consorzi agrari ed enti per l’assistenza agli orfani dei lavoratori. Poi ci sono veri e propri «mostri» come l’ente nazionale per le tre Venezie, l’Ufficio accertamenti e notifica sconti farmaceutici, l’Ente giuliano autonomo di Sardegna, la Fondazione Guglielmo Marconi, l’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente, l’Istituto Beata Lucia di Narni. Gode di ottima salute pure l’Ente nazionale risi, che assicura il monitoraggio del complesso mercato del riso italiano: l’ha tolto dalla lista dei «sopprimibili» il ministro delle Politiche agricole Paolo De Castro.

Queste realtà semi-immortali, insomma, sono come le croste: gratti, gratti ma è impossibile mandarle via. Eppure è mezzo secolo che si cerca di estirpare la gramigna degli enti inutili. La Corte dei conti, di recente, ne ha fatto la cronistoria. La prima legge sulla soppressione degli enti inutili è del 1956. Allora ne censirono più di 600. Il primo a essere cancellato fu il consorzio provinciale tra macellai per le carni di Napoli. Ci si è accorti subito che eliminarli definitivamente è impresa titanica. Per sbarazzarsi definitivamente delle Lati, linee aeree transcontinentali italiane fondate da Italo Balbo, ci sono voluti 49 anni! Lo scorso 30 dicembre il sottosegretario all’Economia Paolo Cento gongolava spiegando che «è giunta finalmente a conclusione la procedura per la liquidazione e la definitiva soppressione della compagnia aerea del regime littorio».

Il problema è che questi «burosauri» sono facili da creare, difficilissimi da distruggere. Innanzitutto ci sono i veti politici. Ma, superati quelli, la strada resta in salita. Bisogna nominare il liquidatore, censire il patrimonio, gestire crediti e debiti, risolvere i contenziosi. Poi, finalmente, si può chiudere baracca. I contenziosi, appunto: un avvocato dà ossigeno all’Ente per la carta e la cellulosa perché rivendica il pagamento di parcelle di oltre 20 milioni di euro. E la Lati, senza sede né dipendenti, è rimasta viva per decenni a causa di una vertenza col governo brasiliano a proposito di un terreno del valore di circa 15mila euro.

Nel 1998 è nato l’Iged (Ispettorato generale per la liquidazione di enti disciolti): un ente inutile che non è riuscito a eliminare gli enti inutili e quindi finito nella lista dei «da sopprimere». E la patata bollente è passata così nella mani della Fintecna, società esterna controllata dallo Stato.

Ma spazzare via questi mostri è un vero incubo: se l’Inpdap avanza crediti all’ex Enpas, il quale ne vanta dall’ex Enpded, si capisce che il pasticcio è di quelli tosti. La soluzione? L’onorevole azzurro Enrico Costa non ha dubbi, ci vuole la bomba atomica: «Il nuovo Parlamento dovrà subito autorizzare procedure semplificate. Dal bisturi occorre passare all’accetta».

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