Professor Monti, le invio una sintetica rassegna delle analisi di alcuni dei più ascoltati economisti e dei più importanti organismi internazionali su come in Europa si è affrontata la crisi dei debiti sovrani. La mia vocazione da 13 mesi è questa: riportare la migliore letteratura internazionale per aiutare a capire, oltre i luoghi comuni, le banalità e le tante strumentalizzazioni politiche. Rispetti la verità, professore, e con la verità le regole scritte e non che ci hanno lasciato i nostri padri costituenti e la prassi repubblicana.
L'ultimo approfondimento è quello del Fondo Monetario Internazionale, dal titolo Growth forecast errors and fiscal multipliers. Dallo studio emerge che le politiche di austerità adottate nell'Eurozona negli anni della crisi hanno avuto effetti (negativi) sulla crescita di questi paesi maggiori del previsto/del normale. Ma andiamo nel dettaglio dell'analisi a firma del capoeconomista dell'istituto, Olivier Blanchard, e di Daniel Leigh. Ad ottobre il Fmi segnalava rischi di «avvitamento» delle economie dell'eurozona, derivanti dalle stringenti manovre di consolidamento dei conti pubblici. Secondo le analisi, alcuni errori di previsione della crescita indicano la presenza di una sistematica sottovalutazione dell'impatto delle misure di rigore sulla crescita economica. Ciò implica che per ogni punto percentuale di Pil di contenimento del disavanzo fiscale, la crescita economica di breve termine si riduce oggi di più di 1,5 punti percentuali, rispetto alla contrazione di mezzo punto percentuale che si registrava negli anni precedenti la crisi.
Gli ulteriori approfondimenti svolti da Olivier Blanchard e Daniel Leigh hanno confermato la loro precedente tesi. E la presenza di moltiplicatori fiscali più ampi in periodi di recessione dipende da tre fattori: 1) La recessione comporta il cattivo funzionamento dei mercati finanziari e blocca la trasmissione della politica monetaria adottata dalle banche centrali. In altri termini, in periodi di decrescita le decisioni delle banche centrali non si ripercuotono sull'economia reale (meccanismo di trasmissione). Vale a dire che la politica di riduzione dei tassi di interesse non è più sufficiente. Come se il mercato si fosse assuefatto a questa medicina. Nei periodi di corretto funzionamento del sistema finanziario le variazioni dei tassi di interesse si ripercuotono direttamente sulle banche e indirettamente sui tassi attivi e passivi offerti dalle banche. Al contrario, quando il meccanismo di trasmissione della politica monetaria è bloccato, le banche centrali sono costrette ad avvalersi di strumenti di natura straordinaria (e temporanea). Come è avvenuto, per esempio, in Europa con le due aste di finanziamento a breve termine e agevolato alle banche dell'eurozona da parte della Bce e con il programma di acquisto di titoli di Stato con vita residua fino a tre anni; 2) Livelli di produzione e di reddito più bassi, nei periodi di recessione implicano che le decisioni di consumo da parte delle famiglie e le decisioni di investimento da parte delle imprese si basano più sul reddito corrente e sugli utili attuali che sul reddito e sugli utili attesi; 3) Quanto più l'economia è debole, tanto più aumentano i moltiplicatori fiscali. Oggi più di ieri il rigore fa male alla crescita e allontana drammaticamente la ripresa. Altro che compiti a casa. Altro che salva Italia.
Basterebbe questo per confutare tutta la linea di politica economica adottata dall'Europa negli anni della crisi. Ma vogliamo riportare anche altre autorevoli testimonianze. A partire dal premio Nobel Paul Krugman, che ha scritto e continua a scrivere sul New York Times: «L'austerità non funziona: a causa di una politica economica tutta sacrifici e niente crescita, l'Europa è sanguinante, salassata inutilmente come i malati nel Medioevo, curati con medicine che li facevano ammalare ancora di più». Un altro premio Nobel, Joseph Stiglitz, si rivolgeva proprio a Lei, professor Monti, nel convegno «Oltre l'austerità», quando si è espresso sulle scelte di politica economica adottate in Europa per fronteggiare la crisi, sostenendo che le politiche di austerità non sono sufficienti a condurre l'Europa fuori dall'emergenza, perché l'austerità è un fenomeno che si autoalimenta e che deprime l'economia.
Ad ulteriore supporto, Ben Bernanke, presidente della Federal Reserve, la banca centrale degli Stati Uniti, ha tenuto quattro lezioni magistrali all'Università George Washington sul tema «La Federal Reserve e il suo ruolo nell'economia di oggi». A differenza della Bce, infatti, il ruolo delle principali banche centrali del mondo consiste non solo nel garantire la stabilità dei prezzi (inflazione sotto il 2%), ma anche nel garantire livelli di crescita e di occupazione stabili. Inoltre, le principali banche centrali mondiali, anche in questo caso al contrario della Bce, garantiscono la stabilità finanziaria attraverso la funzione di prestatore di ultima istanza.
In linea con le analisi finora riportate, si colloca anche lo studio preparato da Paul de Grauwe della London School of Economics e da Yuemei Ji della University of Leuven. Secondo quanto sostenuto il mercato dei titoli di Stato nell'area euro è più fragile e più sensibile alle crisi di liquidità rispetto a quello dei Paesi che non fanno parte di un'unione monetaria e in cui la banca centrale funge da prestatore di ultima istanza. Inoltre, una parte significativa dell'aumento degli spread negli Stati cosiddetti Pigs è dipesa dal risultato di «sentimenti» negativi auto-avveranti dei mercati, che sono divenuti molto forti a partire da fine 2010.
Il motivo del diverso e più aggressivo atteggiamento dei mercati nei confronti dei Paesi dell'eurozona è legato a una caratteristica fondamentale delle unioni monetarie: gli Stati che fanno parte di un'unione monetaria emettono debito in una valuta su cui non hanno il controllo. Di conseguenza, i governi di questi Paesi non possono garantire che ci sarà sempre liquidità disponibile per rimborsare i titoli del debito alla scadenza ed è pertanto possibile che non riescano a pagare i propri creditori.
In questa dinamica c'è una variabile auto-avverante: quando gli investitori temono il default si comportano in maniera tale che esso diventa più vicino. Pertanto, un Paese può diventare insolvente solo perché gli investitori pensano che ciò possa accadere. Stando all'analisi di Paul de Grauwe, in un'unione monetaria la mancanza di fiducia nei confronti di un Paese determina l'aumento dei tassi di interesse sui titoli di Stato, nonché un aumento degli spread, sconsiderato rispetto ai fondamentali economici che influenzano realmente la solvibilità del Paese medesimo.
Professor Monti, quanto riportato in sintesi spiega come la politica economica adottata dall'Europa negli anni della crisi, imposta dalla Merkel ai paesi sotto attacco speculativo e da lei passivamente seguita (poco contano i timidi tentativi di distinguersi), sia stata del tutto sbagliata e abbia bloccato la trasmissione della politica monetaria che il presidente della Bce, Mario Draghi, ha cercato di far convergere progressivamente verso l'impostazione espansiva adottata dalle altre banche centrali mondiali.
Lei che ne pensa? Ha qualcosa da dire, da obiettare, al di là delle battute che continua a ripetere, che in quel maledetto dicembre 2011 l'Italia sarebbe stata sull'orlo del baratro e che si era al punto di non riuscire a pagare gli stipendi dei pubblici dipendenti. Se ne è veramente convinto, ha il dovere etico e politico di dimostrarlo in maniera inconfutabile. Visto che fino ad ora non lo ha fatto, e ne avrebbe avuto tutti gli strumenti, lasci stare la propaganda, smetta i panni da salvatore della patria. Faccia il buon riformatore, se ne è capace, con il consenso della gente.
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