di L'insostenibile pesantezza della sconfitta. Lo scandalo della sconfitta. L'intollerabilità del fallimento. Il tabù del fallimento. L'impossibilità di accettare il proprio non farcela. C'è tutto questo alla radice della lunga serie di suicidi che, scatenata dalla crisi, sta lacerando il Paese, il Veneto in particolare. Secondo una ricerca di Link Lab sono 238 in tutta Italia tra il 2012 e il 2013, il 14,1 per cento negli ultimi mesi concentrati nella regione di Nordest, la metà dei quali imprenditori. L'altro giorno ce n'è stato un altro. Un'altra resa alla disperazione. Bruno Zanardi, imprenditore dell'editoria, titolare di un'azienda alla vigilia del concordato fallimentare, si è tolto la vita impiccandosi nel reparto di cartografia. Aveva 74 anni. In poco tempo la sua impresa di libri scolastici, cataloghi e volumi firmati aveva dovuto ridurre da 300 a un centinaio il numero dei dipendenti, quasi tutti in cassa integrazione. L'ennesima tragedia della disperazione. Scriviamo così: ennesima. Cioè: ci abbiamo fatto il callo. Ennesima, una routine a cui ci siamo abituati. La Chiesa cosa fa? L'altro giorno papa Francesco ha detto che il primo test di una buona partecipazione alla messa domenicale è accorgersi dei bisogni degli altri, dei disagi degli altri. E le istituzioni locali cosa fanno? La politica come interviene? Bastano gli psicologi per gli imprenditori? O c'è da andare un po' più al fondo?
In Rete c'è un post de Linkiesta intitolato così: «Padova, la terra dei suicidi non chiede più spiegazioni». Padova è la Città del Santo, la città della devozione radicata e tradizionale. Ma è anche la capitale dell'una volta «ricco Nordest». Gente mite, famiglie unite. L'obiettivo di un po' di benessere - quasi un sogno americano trasportato in provincia - che sfuma improvvisamente. Con la mortificante presa d'atto che non si può più garantire il lavoro per i propri dipendenti. Persone con cui si lavora fianco a fianco ora si devono licenziare o mettere in cassa integrazione. Nella tipografia di Zanardi, lo erano anche sua moglie e le due figlie. Un'umiliazione cui era stato costretto da quel senso di giustizia che rifugge i favoritismi. Sempre a Padova, appena una settimana fa, un benzinaio è salito al decimo piano dell'Ospedale che è lì, poco lontano dal distributore sulla circonvallazione e dalle cupole di Sant'Antonio, e si è buttato. Aveva 57 anni e uno spirito curioso e battagliero, come ha scritto sul Mattino di Padova Ferdinando Camon, suo cliente. «La crisi mi ha tolto il sorriso», ha vergato nell'ultimo biglietto. Anche la sua era una storia di crediti non riscossi e di debiti invece da pagare improrogabilmente.
Ogni tanto il governatore del Veneto Luca Zaia alza la voce. E si sente rispondere che la crisi sta allentando la morsa. Poi, però, ecco un'altra tragedia. Perché forse c'è una questione ancora più al fondo del dato statistico e geografico che riguarda i suicidi nel Veneto. Una questione che attiene proprio alla concezione della persona che certo, qui in particolare, si è andata affermando con il «miracolo del Nordest». È l'idea dell'imprenditore, piccolo eroe del benessere proprio e altrui. Creo lavoro, faccio girare l'economia, mantengo tanti dipendenti e le loro famiglie. C'è motivo per essere soddisfatti di sé e di ciò che si è costruito. È anche questa un'idea di successo. Ma è un'idea malsana perché non contempla la sconfitta. E immagina l'imprenditore come una figura invincibile. Qualche giorno fa, rispondendo a Vauro che lo attaccava bassamente proprio perché imprenditore ricco, Flavio Briatore ha risposto con un certo orgoglio: «Io creo posti di lavoro e non ho mai messo nessuno in cassa integrazione».
Ma se capita? E capita sempre più di frequente. Impiccarsi a 74 anni ha a che fare con l'improvvisa scoperta del fallimento. Con l'impossibilità di accettare la sconfitta. Di convivere con il fallimento. Il fallimento dell'azienda coincide con il fallimento di una vita. Ecco l'errore: abbiamo realizzato una identificazione totale tra la persona e l'impresa. Ma l'errore riguarda un modello di uomo e di società iper-competitiva che ha stabilito coincidenza tra l'essere e l'agire in tutte le categorie. Tra l'essere, la prestazione e il benessere. Finché tutto gira, tutto funziona: bene. Quando le cose iniziano ad andare male, non si regge. La sconfitta non è contemplata. Non è tollerabile. Questo è il limite del nostro modello d'uomo. Per capirci, la questione vale per quei ragazzi che si tolgono la vita dopo una bocciatura, un brutto voto, il rifiuto di una potenziale fidanzatina, la gogna dei cyberbulli su siti nemici e social network. E allora si soccombe. Non si regge il contraccolpo. Non si regge lo scandalo, la vergogna.
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