MilanoLà dove c'erano i capannoni, adesso c'è un cimitero: una Spoon River di aziende dove sulle lapidi al posto dei nomi delle persone ci sono quelli delle ditte: i mobilifici, le legatorie, le galvaniche che per mezzo secolo hanno fatto grande questo pezzo d'Italia, e che ora agonizzano e tirano le cuoia. Nel cimitero delle ditte, ogni giorno c'è una nuova lapide. E nell'ossario di quella che fu la via lombarda al business, i conti si regolano senza avvocati e senza decreti ingiuntivi. Perché i tempi della giustizia sono immensi, e il tempo che resta da vivere troppo corto. Chi ha bisogno, ha bisogno subito. Così, semplicemente, si spara.
Tum-tum-tum-tum-tum-tum-tum. Bisogna immaginarseli così, interminabili, uno dopo l'altro i sette colpi che nel traffico delle statali, a ridosso dell'autostrada per Bergamo, ieri mattina bucherellano la portiera di una Mercedes in colonna. Dentro l'auto c'è un uomo ormai anziano: Giovanni Biffi, 75 anni. Sta andando verso il suo lavoro, verso l'azienda che ha creato insieme ai fratelli nel 1963, quando qui erano tutti campi di grano e di frutta, e l'Italia si affacciava ingenua e speranzosa al boom economico: e che oggi si sta spegnendo come un malato terminale, divorata dalla globalizzazione, dai clienti che non pagano, dai telefoni dell'ufficio vendite che ormai non suonano più. «Officine meccaniche Biffi», si chiama così, semplicemente, la creatura di Biffi. Stampi per materie plastiche, e sembra di vedere l'Italietta del moplèn. Da tre anni i bilanci sono in rosso. Le banche hanno staccato i fidi e passato le pratiche all'ufficio legale. Biffi, che è un padrone di un'altra epoca, e sua figlia Caterina si sono preoccupati per prima cosa di trovare un futuro ai loro cinquanta operai. A maggio hanno messo in liquidazione la ditta, e stanno cercando di ripartire con un altro nome. Ma i creditori, i fornitori, i finanziatori, non si possono accontentare tutti. E così: tum-tum-tum. A Biffi non gli fanno quasi niente: un polpaccio bucato, codice verde. Ma quel tum-tum-tum è il requiem per una generazione di imprese.
D'altronde chi ci va, oggi, dal giudice, per aspettare quindici anni di vedersi dare ragione o torto? Dove saremo, tra quindici anni? Il signor Pasquale Stiglione non poteva aspettare: perché anche lui è un imprenditore con le cambiali che gli si stringono al collo. E in più ha anche i guai a casa, il figlio che non decolla, e che quando cerca di avviarlo al lavoro fatica a capire i ritmi, il senso dello sgobbare. Così più o meno negli stessi istanti in cui a Basiano sparano nel polpaccio a Giovani Biffi, dall'altra parte della cintura milanese, a Vittuone, il padroncino Pasquale Stiglione va dal cliente che non gli ha pagato (o non gli ha pagato del tutto: questioni di cui una volta si sarebbe occupato l'ufficio legale) l'ultimo lavoro, e gli spara addosso, poi si fa arrestare senza fare storie. Anche qui non muore nessuno, fortunatamente. Ma anche qui sul tavolo delle autopsie c'è un universo, un modo di fare impresa forse banale, forse senza grandi orizzonti né slanci, ma che in mezzo secolo ha trasformato una regione ancora contadina nella locomotiva della nazione, e che ora affonda senza certezze, senza più punti di riferimento.
Così c'è chi diventa vittima come Biffi, e chi diventa pistolero come Stiglione. Entrambi, però, travolti in fondo dagli stessi incubi fatti di spread, di concorrenti coreani o cinesi, di direttori di banca.
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