Roma - Qualcuno, nel Pd, insinua che ci sia anche una questione personale tra i due. Insomma: Bersani vuole fare piazza pulita della vecchia guardia e applicare «rigidamente» la regola dei tre mandati parlamentari, e D’Alema si è legato al dito l’intenzione di rottamarlo manifestatagli, sia pur diplomaticamente, dal suo ex pupillo. Qualche altro dirigente spiega la faccenda così: «Se a Palazzo Chigi va un moderato (Monti, ndr), al Quirinale va un socialista (D’Alema, ndr)».
Al netto dei sospetti e dei dispetti, sui quali ieri si strologava assai tra gli esponenti piddini, sta di fatto che con l’intervista di ieri al Corriere della sera Massimo D’Alema è tornato montiano a tutto tondo, al punto da candidare Monti a leader del futuro centrosinistra.
Monti, appunto, e non Bersani. Perché l’attuale premier «è una personalità liberale che con la sua azione può mitigare positivamente le resistenze stataliste che ci sono ancora tra i socialisti», e comunque «in un nuovo centrosinistra europeo può trovarsi a perfetto agio». E perché nel vertice Ue della scorsa settimana il presidente del Copasir vede niente meno che «l’atto costitutivo del nuovo centrosinistra europeo», con buona pace del povero Mariano Rajoy che in verità sta nel Ppe.
Ma per D’Alema «le interpretazioni meramente geopolitiche» che attribuivano all’asse mediterraneo tra Italia e Spagna il risultato positivo sono sbagliate, «senza la vittoria di Hollande alle elezioni non si sarebbe ottenuto niente» e in ogni caso «tutti i punti qualificanti dell’accordo erano già scritti» in un documento approvato dal Pse prima del consiglio di Bruxelles. E lui, come ricorda spesso, del gruppo dirigente Pse fa parte a pieno titolo «in quanto Massimo D’Alema, e non in quanto Pd», essendo presidente della Fondazione dei partiti socialisti europei.
Col segretario del Pd è un po’ più generoso Pier Ferdinando Casini, che in una intervista gemella su Repubblica celebra anche lui il successo di Monti al vertice europeo e lo candida a leader anche nella prossima legislatura, ma include Bersani nella futura rosa per la premiership, assicurando che «nel momento in cui si realizzerà una convergenza, che mi auguro ancora più vasta, decidere la guida del governo non sarà un problema».
Applicando il teorema di cui sopra, se uno di sinistra (Bersani) va a Palazzo Chigi, un moderato (Casini) va al Quirinale, o - se il Colle fosse prenotato per Monti - almeno alla presidenza del Senato. E questo può spiegare la generosità del leader Udc.
La doppietta di interviste domenicali non deve aver comunque entusiasmato Bersani, che sui risultati del vertice Ue era stato più freddino di D’Alema e Casini («Attenti che dobbiamo ancora tirare fuori i piedi dal baratro», è stato il suo commento non proprio entusiastico) e che sta cercando di accelerare la marcia verso le primarie per blindare la propria leadership sul partito e la propria candidatura al governo futuro. Già deve fare i conti con un Matteo Renzi che lavora sodo e guadagna terreno nei sondaggi: ora ci si mette anche D’Alema, che con l’intervista di ieri sembra preferirgli Monti. E che sicuramente disegna per il 2013 una coalizione Pd-Casini-Monti che rischia di risultare indigeribile all’alleato di sinistra che Bersani vuole imbarcare, ossia Nichi Vendola.
Il quale negli ultimi giorni sta già alzando il prezzo della propria adesione all’intesa col Pd, nel timore di finire ostaggio di un’alleanza iper-montiana, e fa sponda con Di Pietro e con i sindaci per premere su Bersani. Ventilando la minaccia di una «Syriza» all’italiana con Idv, Fiom e i nuovi primi cittadini, da Orlando a De Magistris, da Doria a Pisapia.
A D’Alema, che sancisce che Di Pietro «non ha alcun valore di sinistra», Vendola replica che «è meglio Tonino della Fornero».Tenere insieme i pezzi non sarà facile per Bersani. Anche perché, avverte Paolo Gentiloni, «le scelte di governo dei prossimi sei mesi finiranno per saldare l’asse tra Pd e Udc, e per scavare un fosso con Di Pietro».
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