Roma - Prende carta e penna Massimo D’Alema ed esprime «sorpresa e disapprovazione» ai suoi colleghi ministri di Washington, Londra, Ottawa, Melbourne, L’Aja e Bucarest, precisando che «l’Italia è impegnata con coerenza, risorse e mezzi significativi nelle operazioni in Afghanistan» e che, magari pure animata dalle migliori intenzioni, l’iniziativa dei sei ambasciatori a Roma «si presta ad essere interpretata come una inopportuna interferenza esterna nel corso di un processo decisionale su una materia che è e resta di esclusiva competenza del governo e del Parlamento». Caso chiuso, conclude, anche se sarà meglio che d’ora in poi si controllino meglio «responsabilità e prerogative» dei diplomatici. «Alcuni ambasciatori mi hanno chiesto scusa», dice in serata Prodi. Ma al contrario di quel che pensano premier e ministro degli Esteri, il caso è tutt’altro che chiuso. Visto che dai sei Paesi parte una controffensiva che rende ancor più imbarazzante il caso per il governo italiano.
C’è chi cerca di alleviare l’irritazione del governo, come il leader romeno Calin Popescu Tariceanu, il quale informa da Bucarest di non averne saputo nulla, dato che la firma del suo ambasciatore «rappresenta una pratica insolita, fuori dalle consuetudini diplomatiche che sarà difficile spiegare a Prodi». Ma c’è anche chi mette sulla lettera un carico da novanta. È l’ambasciata olandese - tramite i suoi funzionari - che torna a far deflagrare la polemica. Annuncia che quella lettera altro non era che una normalissima «azione di public diplomacy», nata a seguito di una «iniziativa congiunta» degli ambasciatori dei sei paesi i quali hanno ritenuto «sarebbe stata una buona idea» formalizzare il loro parere.
Ma non è tutto. Comunicano infatti a sorpresa i rappresentati del governo de l’Aja di non comprendere il motivo del risentimento, dato che ci si era premurati di informare «alcuni ministeri italiani prima dell’invio della lettera sull’Afghanistan a Repubblica». Dall’ambasciata inglese rincarano poi la dose: «Il documento - spiegano - non è il frutto di decisioni autonome degli ambasciatori, in quanto ognuno di loro ha espresso, come è ovvio, la linea dei rispettivi governi».
Cade insomma rovinosamente la linea di difesa adottata dalla nostra diplomazia e dal governo: la lettera in cui si definiva «fondamentale» l’impegno italiano in Afghanistan, non è frutto del personale parere dei sei ambasciatori di Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Australia, Olanda e Romania di stanza a Roma, come del resto si era dovuto ammettere a mezza bocca l’altra notte dopo che il dipartimento di Stato aveva definito «lodevole» quella iniziativa. E per di più il suo contenuto era stato diramato «ad alcuni ministeri italiani» contattati dalla sede diplomatica olandese.
La crisi tra Italia e alleati atlantici, a questo punto, ci sta tutta, visto anche il tenore della replica di D’Alema. Ma a suffragare ancor più questa tesi c’è da aggiungere anche l’intervento da Bruxelles dell’assistente del segretario generale De Hoop Scheffer per la politica di difesa e della pianificazione: «Non è stata una iniziativa Nato - tiene a precisare John Colston -; noi non ne sapevamo nulla, ma resta il fatto che la missione Isaf è una missione in cui i 26 alleati partecipano insieme a 11 partner. Una missione in cui tutti sono impegnati politicamente e questo crea aspettative politiche e pratiche anche perché bisogna fare di più e nessun alleato è esonerato».
E a timbrare definitivamente la questione col marchio della «crisi» è da Washington Terry Davidson, portavoce della Rice per le questioni europee: «La lettera di Spogli? Lui è perfettamente in grado di gestire la situazione». Una telefonata di D’Alema alla Rice? «Non è in programma alcun chiarimento» fa sapere gelido.
E in serata, il portavoce del Dipartimento di Stato, Sean McCormack, spiega che gli Stati Uniti «non cercano di interferire» nel dibattito politico italiano, ma vogliono ribadire una posizione sull’Afghanistan già espressa in sede Nato e continueranno a farlo.
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