Cronache

Dietro le sbarre da innocente: Aldo, ucciso dalla giustizia

Nell'86 lo studente cagliaritano fu "incastrato" da un passamontagna lasciato dai killer nel suo giardino. Si impiccò in cella dopo sei mesi di isolamento

Aldo Scardella
Aldo Scardella

È il 2 luglio 1986 e siamo nel car­cere Buoncammino di Cagliari quando il ventiquattrenne Aldo Scardella si toglie la vita impiccan­dosi all’interno della propria cella dove, dal 29 dicembre del 1985, era detenuto in isolamento giudi­ziario per u­n omicidio ed una rapi­na che non aveva mai commesso.
Aldo si è suicidato per la dispera­zione, esausto di gridare la pro­pria­innocenza da centottantacin­que giorni senza essere mai ascol­tato, senza essere mai creduto. Tutto ebbe inizio il 23 dicembre del 1985 intorno alle dieci di sera. Siamo all’antivigilia di Natale, quando due uomini armati entra­no in via dei Donoratico a Cagliari nel negozio Bevimarket di Giovan­ni Battista Pinna. Giovanni Batti­sta Pinn­a cinquantenne commer­ciante cagliaritano stava chiuden­do il proprio negozio di liquori e vi­ni, quando improvvisamente ven­ne aggredito dai malviventi che cercando l’incasso pre-natalizio, aprirono il fuoco su di lui, ucciden­dolo. Poco distante dal luogo del­l’omicidio e della rapina abitava Aldo Scardella un giovane e bril­lante studente universitario che si prefigurava un futuro fatto di lavo­ro ed ideali.
A collegare il supermercato,tea­tro dell’omicidio, e la casa del gio­vane Scardella c’era un mandorle­to dove gli assassini, scappando, inavvertitamente persero un pas­samontagna. Passarono tre giorni da quell’efferato delitto quando, alle sei di mattina del 26 dicem­bre, alcuni uomini della Squadra Mobile di Cagliari entrarono nel­la casa di Scardella per una perqui­sizione. Aldo Scardella venne in­terrogato. Venne anche fatta una perizia sul passamontagna che diede riscontri negativi circa la possibile appartenenza al giova­ne studente sardo.
Nonostante la perizia e l’alibi fornito, Scardella venne arrestato il 29 dicembre e tradotto in prima battuta nel carcere di Oristano, in
isolamento giudiziario. Per ben dieci giorni la famiglia non seppe in quale penitenziario fosse stato trasferito il proprio figlio; sempre per 10 giorni non diedero ad Aldo la possibilità di accettare il pro­prio avvocato difensore non per­mettendogli di firmare la delega necessaria.
La formula per cui venne arre­stato Aldo Scardella citava «esisto­no sufficienti indizi di colpevolez­za a carico dell’imputato per po­ter affermare che Aldo Scardella sia colpevole». Questi «sufficienti indizi di colpevolezza» misero Scardella in una condizione di iso­lamento con una pressione fisica
e psicologica probabilmente utile a dichiarare la propria colpevolez­za. Una colpevolezza che non esi­steva. Il difensore di Aldo Scardel­la per ben due volte tentò l’istanza di scarcerazione ma senza succes­so. Aldo Scardella venne arrestato per presunzione di colpevolezza anche se il passamontagna ritro­vato non apparteneva a lui ed il guanto di paraffina dimostrava che non aveva esploso alcun col­po di pistola. Ma lo Scardella abita­va a poche decine di metri dal luo­go del delitto e i rapinatori erano scappati a piedi il che dimostrava, secondo la Procura, che le indagi­ni dovevano fermarsi a chi abita­va necessariamente nella zona. Ad Aldo Scardella venne negata anche la possibilità di assistere con gli altri detenuti alla Messa di Pasqua così come di appendere nella sua cella dei disegni e dei po­ster per renderla più umana. Per centottantacinque giorni al giova­ne studente universitario venne negata ogni cosa al solo fine di far­lo crollare, al solo fine di trovare non «il» colpevole ma «un» colpe­vole.
Fu per questo che Aldo Scardel­la si tolse la vita; torturato moral­mente da troppo tempo e mai ascoltato in nessuna istanza che
gli permettesse di reggere, a venti­quattro anni, il disonore per un omicidio mai commesso. Ma la vi­ta, o meglio il destino, è beffardo e crudele e così solo la morte suici­da del giovane fece porre l’atten­zione dell’opinione pubblica na­zionale sul trattamento utilizzato dalla Procura di Cagliari attraver­so interrogazioni parlamentari in cui si chiese se rispondeva a verità che «i familiari non vennero infor­mati, nonostante le ripetute richie­ste, del carcere ove era recluso fi­no all’ 8  gennaio 1986 e soltanto in tale giorno poterono consegnar­gli il cambio della biancheria; per tutta la durata dell’istruttoria som­maria l’imputato venne tenuto in isolamento e non ottenne il per­messo di avere colloqui coi fami­liari e col difensore; il giudice istruttore non interrogò mai l’im­putato; il giudice istruttore man­tenne l’imputato in stato di isola­mento continuo, concedendo so­lo tre colloqui ai familiari (...) e non concesse mai alcun colloquio al difensore».Ma la storia dell’omi­cidio del Bevimarket di Cagliari si riaprì con un processo a cari­co di Adriano Peddio e Wal­ter Camba ac­cusati nel ’96, dieci anni do­po il suicidio di Scardella, da Antonio Fanni, uncollaborato­re di giustizia. Fanni dichiarò di avere fornito l’arma, una ca­libro 38, ai due malviventi ca­gliaritani facen­ti parte della banda di «Is Mirrionis», che il 20 settembre 2002 vennero condannati in via definitiva per essere stati i colpevoli ma­teriali dell’omicidio di Pinna.


Troppo spesso la ricerca spa­smodica di un colpevole porta la Giustizia a costruire e non a istrui­re processi; di questa vicenda ri­mane anche impressa nella me­moria l’immagine di Enzo Torto­ra che il 23 settembre del 1986 de­pose i fiori sulla tomba di Aldo Scardella, un’immagine paradig­ma di una giustizia capace di ucci­dere.

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