Ora che il vento delle primarie ha spazzato via tutti gli altri, sul ring del Pd sono rimasti solo loro: il neo-leader Matteo Renzi e il premier Enrico Letta.
E ieri i due hanno avuto il primo incontro dopo il trionfo renziano: il sindaco è salito a Palazzo Chigi, i due sono rimasti un'oretta a colloquio nello studio del presidente del Consiglio, che ha fatto mettere online la foto che li ritrae sorridenti e rilassati come vecchi amici, poi una dichiarazione congiunta per dire che l'incontro è stato «positivo e fruttuoso» e che «lavoreranno bene insieme».
Formule diplomatiche. Dietro le quali restano le distanze di prima (con la differenza che ora Matteo Renzi è l'azionista di maggioranza del governo di Enrico Letta), e la verità di fondo rimane quella già affidata ieri mattina dal sindaco di Firenze ad un colloquio assai rivelatore con la Stampa: «Io patti con Enrico non ne ho. Magari li faremo, ma per ora non ne ho. E dico di più: avrei fatto un accordo per andare anche oltre il 2015, ma non capisco lui che vuole fare, cosa ha in testa e dove vuole arrivare: e se non capisco mi dispiace, ma patti non ne faccio».
Non risulta che ieri i due si siano capiti molto meglio. Né che le distanze sul principale punto di frizione si siano accorciate. Sulla legge elettorale infatti, a sentire i renziani, il neosegretario è stato chiaro nel ribadire le sue posizioni: «Il governo non si immischi e non si metta di traverso. È onere del Pd fare la propria proposta a tutte le altre forze politiche, e verificare chi ci sta». Dalla sua Renzi ha il vantaggio di non aver ancora messo nero su bianco uno schema di riforma, legandosi le mani, ma di aver solo indicato dei criteri di fondo: no al proporzionale, salvaguardia del bipolarismo, basta larghe intese. E il giorno del voto si deve sapere chi ha vinto e governa e chi sta all'opposizione. Su questa base, che lascia aperto un ventaglio di ipotesi dal doppio turno al Mattarellum corretto fino al sistema spagnolo, andrà a cercare accordi, perché «sulle regole si dialoga con tutto il Parlamento». Inizierà alla Camera con Sel, ma per il Senato servono altri numeri e lì si dialogherà «con tutti, compreso Berlusconi». Anche con Grillo e Berlusconi. Con un corollario: «Quando si fa una riforma - dice Renzi - poi in genere si va a votare».
La versione di Palazzo Chigi, ieri sera, era molto diversa. Il «patto» veniva dato per fatto: «Accordo di maggioranza su legge elettorale e riforme istituzionali dopo l'approvazione della legge di stabilità, a gennaio». Con il via libera ad una accelerazione sulla riforma del Porcellum, ma quando «tutte le finestre elettorali per votare in primavera saranno ben chiuse». In cambio, Letta si impegna a garantire una scelta bipolarista, su cui convincere anche gli alfaniani, rassicurandoli sulla durata del governo fino al 2015. E Renzi, a sentire i lettiani, è consapevole che «la nuova legge elettorale si può fare solo all'interno di questa maggioranza», perché un accordo con Berlusconi o con Grillo è impotabile: «Non è così fesso da sputtanare la propria credibilità a sinistra inseguendo un accordo con un Cavaliere populista, anti-europeo e filo-grillino: deve per forza trattare con Alfano».
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