Se beccate vostro figlio che esce di casa con una bomboletta colorata in mano, non fate scenate inutile: limitatevi a tagliargli la mano, anzi - per essere più sicuri - tagliategliele entrambe. È risaputo infatti che, con tale «piccola» menomazione, imbrattare muri e monumenti a colpi di spray risulta una pratica particolarmente complessa. Una soluzione pulp, certo. Ma l'alternativa è rischiare di trovare il baby «graffittaro» di casa accusato addirittura di associazione a delinquere. Un'esagerazione? Probabilmente sì. Ma intanto ci sono città come Milano dove la magistratura ha deciso di usare la mano pesante contro chi - come recita l'art. 639 del codice penale - «deturpa o imbratta cose altrui». Su questo fronte, in verità, la legge è sempre stata severa: «A chiunque deturpa e imbratta beni immobili o mezzi di trasporto pubblici o privati, si applica la pena della reclusione da uno a sei mesi o della multa da 300 a 1.000 euro. Se il fatto è commesso su cose di interesse storico o artistico, si applica la pena della reclusione da tre mesi a un anno e della multa da 1.000 a 3.000 euro. Nei casi di recidiva si applica la pena della reclusione da tre mesi a due anni e della multa fino a 10.000 euro». Ma da qualche tempo i giudici hanno deciso di metterci il carico da 90, ipotizzando - nei casi più gravi - addirittura l'associazione a delinquere. Una contestazione di reato che già in un'occasione (Procura di Como) è poi caduta in fase dibattimentale. Ora la Procura di Milano ci riprova, convinta che dietro le «bande dei writers» si nasconda «una struttura e pericolosa organizzazione criminale dedita ad attività vandaliche». Un ritratto di graffitaro-teppista nel quale i veri street artist non si riconoscono affatto. E così nei forum dei siti specializzati è cominciata la corsa ai distinguo: «I graffitari doc non hanno nulla a che vedere con gli imbrattatori - spiega MarioTag64 -. Noi la città la abbelliamo, loro la rovinano con segni neri che non significano un cazzo». Indignato pure LilloCrew71 che arriva a invocare un apposito «registro comunale dove inserire i nomi degli street artist che veramente meritano di essere riconosciuti come tali».
Eccolo il paradosso: quello del graffitaro imborghesito che reclama la politica della meritocrazia. Una deriva da salotto radical chic - o meglio, radical choc - inaugurata a Milano nella primavera 2007 quando per la prima volta la street art approdò al PAC (Padiglione Arte Contemporanea) con tanti saluti e baci per la retorica dei ghetti e delle periferie, presunti habitat naturali dei murales duri e puri. Altro che indignados della bomboletta, missionari di denuncia nei Bronx metropolitani di tutto il mondo; i nostri graffitari alla vaccinara cominciarono a frequentare gli studi delle televendite d'arte. E nulla fu più come prima (ammesso che prima ci fosse mai stato qualcosa). Una cosa però è certa: il graffitismo inteso come manifestazione artistica è cromosomicamente incapace di degenerare in atti di vandalismo. Il teppismo da bomboletta spray è robaccia per giovanissimi poser che producono solo tag, ovvero la loro sgorbiotica firma; la firma di un poveretto che non sa e non saprà mai realizzare nulla di buono: nell'arte dei colori e del disegno, così come nell'arte della vita.
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