Roma - Dentro l'Assemblea nazionale del Pd, annunciando il congresso per l'8 dicembre, giorno dell'Immacolata, riesce a far arrabbiare i lettiani, imbufalire i bersaniani, inviperire i renziani. «Faremo un congresso della Madonna», chiosa il parlamentare Giovanni Lolli. Fuori, in compenso, fa insorgere gli alleati di governo con i suoi attacchi alzo zero a Berlusconi, e lancia un ultimatum al governo: «Troverei fortemente sbagliato - scandisce Guglielmo Epifani - che, dopo aver tolto l'Imu, si aumenti l'Iva che va ad incidere sui ceti popolari. Non si può fare passare il Pd per il partito delle tasse».
Saranno pure «un po' di mortaretti per tener buona la base del Pd», come spiega un dirigente parlamentare democrat, e sarà pure vero come giura un lettiano che «Enrico ha già deciso che l'Iva non aumenta», le nuove polemiche non agevolano il cammino già traballante del governo. Tanto che, salito a sera al Quirinale, Enrico Letta ribadisce il messaggio a Pd e Pdl: «Non mi farò logorare».
E, proprio per non farsi «logorare», il premier, attraverso i suoi emissari e spalleggiato dal ministro Dario Franceschini, è intervenuto insistentemente nel defatigante braccio di ferro che sulla data del congresso Pd. L'incubo di Palazzo Chigi è che un Pd a trazione Renzi finisca per accorciare inevitabilmente la vita delle larghe intese, e quindi l'obiettivo è di spostare più in là possibile la scontata elezione del sindaco di Firenze a segretario, per far passare l'ultima «finestra» per il voto a primavera ed imboccare la discesa verso il semestre di guida italiana della Ue, che inchioderà Letta alla famosa «seggiola», fino al 2015.
Solo che il forsennato pressing anti-Renzi di tutto il vecchio gruppo dirigente Pd ha finito ieri per produrre un impazzimento totale: all'Assemblea nazionale, convocata prima alle 15 poi alle 17, e slittata alle 18, si è arrivati senza uno straccio di accordo sulle famose «regole» (poi raggiunto in tarda serata e al voto oggi), con il presidente dell'apposito comitato interno, Roberto Gualtieri, che si rifiutava di salire sul podio come previsto dall'ordine del giorno per spiegare il regolamento congressuale concordato («Non saprei che dire visto che non c'è nulla su cui siamo d'accordo», è stata la sua risposta a chi dai vertici del partito lo sollecitava a intervenire per primo) e con il rischio che le centinaia di membri dell'Assemblea - quanti nessuno lo sapeva dire esattamente, a occhio sui 1.000 originari non ce ne erano più di 400 -, chiamati a Roma e per la prima volta spesati per viaggio e alloggio, vista l'importanza dell'occasione, fossero rimandati a casa. «Eravamo sull'orlo del burrone, praticamente costretti a mandare a monte l'assemblea, dando il colpo di grazia al Pd», confida uno dei dirigenti coinvolti nella trattativa. Alla fine, al segretario è toccato prendersi la responsabilità di dare lui una data.
E - al termine di un lunghissimo intervento sull'intero spettro dei temi politici nazionali e internazionali, forse per prendere tempo in attesa che le trattative maturassero - alla fine Epifani ha detto 8 dicembre, e in sala è sceso il gelo. Mugugni, proteste, fischi: i renziani lo volevano prima, i bersaniani (e Letta) dopo, per farlo slittare all'anno prossimo. Il braccio di ferro continua nella notte, in attesa della ripresa dell'Assemblea oggi. «Vedrete che oggi faranno alzare un cattolico qualunque a dire che siccome l'8 dicembre è festa religiosa, non si può, e così potranno far slittare tutto a ridosso del Natale», spiega Pippo Civati ai suoi.
I renziani premono sul leader perché dica no: «È una trappola, loro si eleggono tutti i segretari provinciali coi pacchetti di tessere, non ci fanno eleggere quelli regionali e così ottengono che Renzi nel Pd sarà come la regina Elisabetta: lui regna, e gli altri comandano». Ma il sindaco non vuole aprire uno scontro sulle regole: «La gente non ne può più, non voglio alimentare la giusta nausea degli italiani per i politici».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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