Una notizia scontata - quella della morte di Erich Priebke che da poco aveva compiuto cent'anni - scatenerà, immagino, il prevedibile imperversare di rievocazioni e di anatemi. Nella ritualità delle celebrazioni ed esecrazioni italiane, Priebke era ormai «il boia», colpevole d'un reato che la legge internazionale - ma solo dopo il 1967 - vuole imperdonabile e imprescrittibile. M'è già capitato altre volte di scrivere non per difendere Priebke, che nessuna difesa meritava, ma per denunciare gli espedienti con cui la giustizia italiana ha inflitto la massima pena a un vecchio chiamato a rispondere di colpe commesse una settantina d'anni or sono. E so che l'opporsi al coro delle deprecazioni fu ed è impopolare.
Dicendo che Erich Priebke - subordinato del colonnello Kappler ed esecutore dei suoi ordini nell'orrenda strage delle Fosse Ardeatine - era vittima di un'ingiustizia, Montanelli e io sapevamo benissimo di rompere i rituali d'una condanna pubblica senza appello. Fummo bersagliati da sferzanti sarcasmi, Indro sfuggì a un crucifige stentoreo solo perché, avendo nel frattempo litigato con Berlusconi, meritava un trattamento di favore. Priebke aveva partecipato, come capitano delle SS, alla strage compiuta dai tedeschi dopo che - il 23 marzo 1944 - la bomba di via Rasella aveva ucciso 33 loro soldati (per la precisione altoatesini). Vi furono anche vittime italiane. Gli esperti di diritto internazionale hanno sempre sostenuto che la rappresaglia in tempo di guerra è legittima. Infatti Kappler ebbe l'ergastolo per aver ecceduto la proporzione di 1 a 10 tra i militari caduti e gli ostaggi da trucidare.
Dopo il crollo del nazismo, Priebke era dapprima finito in un campo di concentramento, evadendone. Il soccorso a croce uncinata aveva organizzato la sua fuga in Argentina, a San Carlos de Bariloche. Dove visse indisturbato e stimato per decenni, concedendosi anche qualche vacanza in Italia. Nel frattempo - 1948 - Kappler e i suoi sottoposti che era stato possibile rintracciare - escluso dunque Priebke - furono giudicati dal Tribunale militare di Roma. Ergastolo per Kappler, assoluzione di tutti gli altri per aver obbedito a ordini superiori. Questa era dunque la situazione quando, nel maggio del 1994, una troupe televisiva statunitense in cerca di ex nazisti trovò Priebke nel suo rifugio andino. Saputo che era stato scoperto, il governo italiano ne invocò l'estradizione, e l'ottenne.
Su Priebke si riversarono allora furiose richieste di condanna - e non poteva essere altra che la prigione perpetua - della comunità ebraica e degli antifascisti militanti. Priebke venne giudicato, a Roma, da un Tribunale militare, e nel pomeriggio dell'1 agosto 1996 il presidente Agostino Quistelli lesse la sentenza che, per farla breve, riconosceva la responsabilità di Priebke ma nel conteggio delle aggravanti e delle attenuanti ne ordinava il rilascio. Ciò che accadde fu indegno. Una folla tumultuante strinse d'assedio sia Priebke, sia i giudici, sia i carabinieri di servizio. I politici si mobilitarono. Il sindaco di Roma Rutelli annunciò che, in segno di lutto, avrebbe ordinato di spegnere l'illuminazione dei monumenti. Il guardasigilli Giovanni Maria Flick accorse non per liberare i giudici, ma per spiegare che in forza d'una sorprendente richiesta d'estradizione tedesca Priebke non sarebbe stato liberato. Da notare che il presidente della commissione giustizia della Camera, Giuliano Pisapia, di Rifondazione comunista, prese una posizione coraggiosa: affermò che non possono essere accettate decisioni prese per soddisfare l'opinione pubblica.
Nell'immaginario italiano Priebke era diventato Kappler e poiché Kappler era morto il ruolo di protagonista criminale spettava a lui. Poi si arrivò all'agognata sentenza che, catalogando il massacro delle Ardeatine tra i crimini contro l'umanità, precludeva a Priebke ogni possibilità di tornare libero. Agli arresti domiciliari a Roma è infatti rimasto fino all'ultimo respiro, e i più zelanti tra i forcaioli protestavano - nel Paese dove i boia rossi e neri circolano e concionano - se andava al supermercato. Pochi giorni fa, infine, il «caso» di un'intervista comparsa sul quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung, ripresa dalle agenzie di stampa e dai giornali italiani compreso il nostro e poi smentita dal legale di Priebke, Paolo Giachini.
Con Montanelli abbiamo deplorato il trattamento inflitto dallo Stato italiano a Priebke non perché quel relitto d'una remota stagione storica meritasse attenzione e ancor meno comprensione, ma perché il rigore urlato contro il tedesco boia contrastava troppo con l'indulgenza verso i boia nostri.
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