Fausto e Iaio

Ci sono tre piste nella nuova inchiesta per trovare gli assassini. Gli investigatori puntano sugli estremisti di destra, ma non solo

Fausto e Iaio

Una serie di interrogatori negli ambienti della destra eversiva romana, e nuove indagini dattiloscopiche sui volantini di rivendicazione dell'omicidio. Questi i primi passi della inchiesta sulla morte di Fausto Tinelli e Lorenzo «Iaio» Iannucci, uccisi in via Mancinelli il 18 marzo 1978, riaperta due giorni fa su richiesta della Procura della Repubblica. I pm Francesca Crupi e Leonardo Lesti - che hanno a loro volta raccolto l'input dell'avvocato Nicola Brigida, legale delle famiglie dei ragazzi uccisi - sanno di muoversi su un terreno reso difficile dai quasi cinquant'anni passati dal delitto, dalla morte di alcuni dei personaggi chiave e persino dalla sparizione di parte dei reperti, come il cappello insanguinato trovato vicino ai corpi dei ragazzi e distrutto «per motivi di igiene» dall'ufficio Corpi di reato del tribunale di Milano. Ma sanno anche di non partire da zero: perché se l'uccisione dei due giovani militanti del Leoncavallo è rimasta un delitto irrisolto, più volte nel corso di questi decenni gli inquirenti hanno avuto la sensazione di essere vicini alla verità. Formalmente, la riapertura delle indagini riguarda solo i militanti dell'ultradestra romana legati al Fuan e ai Nar - Mario Corsi, Massimo Carminati e Claudio Bracci - già archiviati in passato. Ma sul tavolo dei pm ci sono almeno altre due piste, anch'esse seguite negli scorsi anni senza successo, e che ora invece potrebbero dare risultati concreti. Eccole.

La vendetta per le spedizioni del Leonka contro i pusher di eroina

La prima strada presa dalle indagini, subito dopo l'omicidio di via Mancinelli, era legata al «libro bianco sull'eroina», un dossier che alcuni militanti del «Leoncavallo» stavano realizzando in quel periodo per identificare e punire direttamente gli spacciatori di droga pesante che in quegli anni imperversavano a Milano seminando morte. «Ronde» contro l'eroina si muovevano nei quartieri popolari colpendo spacciatori o presunti tali. Esaminando il corpo di Iaio, la polizia aveva trovato nelle tasche dei jeans un tovagliolo di carta con alcuni numeri telefonici riferibili a tale Mario Rigamonti, frequentatore del locale «La Capannina». Rigamonti era stato interrogato e aveva riferito di avere visto pochi giorni prima del delitto Iannucci all'interno della Capannina litigare con un uomo alto, biondo e stempiato, noto solo come «Franjo». Al termine della lite, l'uomo avrebbe minacciato Iaio dicendogli «stai attento» e «ne riparleremo».

Maria Iannucci, sorella del ragazzo ucciso, aveva però detto che non le risultava un ruolo di Iaio nella stesura del dossier contro gli spacciatori, mentre uno dei leader dell'Autonomia operaia, Andrea Bellini, aveva confermato che il «libro bianco» era in preparazione, ma aveva escluso che Tinelli e Iannucci, vista anche la giovane età, fossero coinvolti nella attività d'inchiesta.

Ma l'ipotesi che gli spacciatori presi di mira dal «Leoncavallo» si fossero vendicati sui due ragazzi, noti comunque come frequentatori del centro sociale, non era mai del tutto uscita di scena. Anche perché sulla scena delle indagini aveva fatto irruzione un episodio destinato a restare inspiegato: il parroco della chiesa di Santa Maria Bianca, vicina alla zona del delitto, aveva riferito a un avvocato che le telefonate di due donne gli avevano indicato come responsabile dell'omicidio uno spacciatore del quartiere. A telefonare al prete sarebbero state la ragazza di Tinelli e la titolare di una pizzeria di viale Argonne. Ma quando vennero convocate in questura e interrogate, né la ragazza né la pizzaiola avevano confermato di avere parlato col parroco, e avevano anzi escluso di essere a conoscenza di alcunché di utile alle indagini. Come il parroco, don Carlo Perego, fosse arrivato a inventarsi una simile falsità è rimasto uno dei buchi neri delle indagini. Nel frattempo il presunto spacciatore indicato dal prete era stato identificato e sottoposto a indagini, che non erano arrivate a nulla. Ma nei rapporti di polizia viene citato più volte il clima quasi di omertà con cui queste indagini erano andate ad arenarsi.

Squadristi locali al Beccaria e il mistero di «Gigi Cris»

Anche questo filone di indagini si muove a ridosso del mondo dell'eroina, visto che all'epoca una parte del mondo dell'ultradestra cittadina era coinvolto direttamente nello spaccio di droga: ed in entrambe le vesti era nel mirino dell'ultrasinistra. Fattore scatenante dell'omicidio di Fausto e Iaio, secondo questa ipotesi, sarebbe stata la spedizione punitiva effettuata una settimana prima del duplice omicidio da parte di una trentina di giovani del Leoncavallo che al parco Lambro avevano preso di mira un neofascista accusato di essere un pusher di eroina, che lo avevano colpirlo pesantemente con spranghe e chiavi inglesi. Alla polizia, la vittima aveva detto di non avere riconosciuto nessuno degli aggressori, ma i lettighieri dell'ambulanza lo avevano sentito riferire a un amico l'esatto contrario: «Non preoccuparti, so chi è stato».

Sulla presenza di Fausto Tinelli nel gruppo che aveva colpito lo spacciatore la polizia aveva raccolto versioni discordanti. Al presunto spacciatore pestato al parco Lambro venne chiesto dove si trovava la sera dell'uccisione dei due ragazzi, fornì un alibi un po' traballante; il sospetto che il cappello di lana sporco di sangue trovato sul luogo del delitto fosse il suo non venne mai approfondito, le analisi non vennero fatte e alla fine il cappello sparì.

Direttamente sul mondo dell'ultradestra milanese puntò il filone - connesso al primo in alcuni punti - scaturito dal fermo del diciassettenne Mario Bortoluzzi e del suo amico Antonio Mingolla, avvenuto una settimana dopo il delitto. I due avevano avuto un incidente e Mingolla era stato trovato in possesso di una 44 magnum. Dal carcere, Bortoluzzi aveva chiamato un bar chiedendo di fare sparire un impermeabile chiaro, di proprietà di suo fratello Giuseppe, simile a quello che i testimoni avevano visto indossare da uno dei tre assassini di Fausto e Iaio. Giuseppe Bortoluzzi ammise di conoscere il pestato del parco Lambro, che invece negò recisamente: ma anche questa vistosa contraddizione non riuscì a venire approfondita. E senza spiegazione rimase anche il riferimento che nella stessa telefonata dal carcere Mario Bortoluzzi aveva fatto a tale «Gigi Cris», apparentemente in relazione all'omicidio di Fausto e Iaio. «Gigi Cris» venne identificato come Luigi Brusaferri, noto esponente della ultradestra milanese. Ma quando gli inquirenti gli chiesero spiegazioni, Bortoluzzi disse che voleva solo chiedere un consiglio a Brusaferri su quale difensore nominare se fosse stato indagato per l'uccisione dei due ragazzi: un delitto del quale diceva di non sapere niente.

Gli eversivi «neri» della Capitale in trasferta per uccidere

La strada dei Nar porta a Roma. Ed è quella che punta su tre nomi: Massimo Carminati, Claudio Bracci e Mario, «Marione», Corsi. Sono gli stessi iscritti nel fascicolo riaperto dai pm Francesca Crupi e Leonardo Lesti e quelli già archiviati dal gip Clementina Forleo nel 2000.

Gli accertamenti su collegamenti diretti fra Nar e elementi della destra milanese hanno dato esito negativo. Tuttavia, scriveva Forleo, «a carico del Corsi e della destra romana, ed in particolare anche di altri suoi esponenti quali Massimo Carminati e Claudio Bracci, sopraggiungevano nel corso dell'indagine significative dichiarazioni di elementi della destra eversiva». Come Angelo Izzo, il cosiddetto «mostro del Circeo», che ha riferito «di aver appreso da Valerio Fioravanti che lo stesso, unitamente al Corsi ed allo Zappavigna, nel 1979 si era recato a Milano con l'intenzione di uccidere Andrea Bellini, esponente del Circolo Leoncavallo, sospettato di avere partecipato all'uccisione di Sergio Ramelli. Nella circostanza i tre avevano goduto di appoggi locali». La missione non era andata in porto. «In tale occasione il Corsi (...) si sarebbe lamentato con il Fioravanti in quanto l'anno precedente non aveva potuto fruire degli stessi appoggi logistici». Nel 1978, appunto, nella spedizione in via Mancinelli per vendicare i camerati caduti, colpendo i nemici «rossi». Ancora Izzo: «Era noto che questo duplice omicidio veniva attribuito alla destra romana ed in particolare agli ambienti del Fuan-Nar. Io ne parlai con Giusva Fioravanti, il quale lo riferiva senza dubbio al suo gruppo Fuan (Fronte universitario d'azione nazionale, ndr)».

L'inchiesta riaperta punta tra l'altro a disporre una consulenza dattilografica (mai svolta) sui volantini che collegano il duplice omicidio milanese e due attentati romani. La pista romana dei Nuclei armati rivoluzionari si allarga a una falange autonoma, che agiva con azioni mirate di ritorsione, anche «in trasferta» a Milano. Nei volantini, trovati dopo il duplice omicidio e i due attentati con esplosivo del maggio 1978 all'armeria Centofanti di Roma e a una sezione del Pci in via Pompeo Trogo sempre a Roma, era comparsa, infatti, la sigla «Esercito nazionale rivoluzionario-Brigata combattente Franco Anselmi». È la ricostruzione già suggerita nel 1997 dal giudice Guido Salvini. E le firme dei «neri» romani sarebbero, oltre ai volantini, le modalità del delitto, il tipo di armi e l'abbigliamento dei killer. Concludeva però il gip nell'archiviare: «Pur in presenza dei significativi elementi indiziari (...

) a carico della destra eversiva ed in particolare degli attuali indagati, appare evidente allo stato la non superabilità in giudizio del limite appunto indiziario di detti elementi», in particolare per le dichiarazioni raccolte, che sono «de relato».

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