Fiat, ora la Fornero detta la linea a Monti

Il ministro: "Marchionne non può fare come vuole". Sul lavoro: "Non si discute all’infinito. Avanti con o senza accordo"

Fiat, ora la Fornero detta la linea a Monti

Roma - Nel governo suonano due campane diverse. Il giorno dopo che Monti ha dichiarato che «il Lingotto è libero di decidere dove produrre e non è obbligato a pensare solo all’Italia», arriva la versione del ministro Elsa Fornero. Opposta: «La Fiat non è libera di fare quello che vuole: o resta in Italia ed è produttiva o deve trovare delle risorse». Poco dopo il premier ha corretto il tiro, anche se quella che ha pronunciato ieri sera al concerto di Torino per i 150 dell’unità d’Italia, suona al massimo come una moral suasion: «Fiat ha fatto grande questo Paese, così come il Paese l’ha fatta grande e sono sicuro che questo continuerà a essere il patrimonio per il futuro se il grande gruppo si ricorderà quanto impegno, talento e sudore degli italiani hanno contribuito a renderla grande».
Al di là delle vicende Fiat è sempre il lavoro in cima all’agenda del governo. E su questo la parola d’ordine è «Avanti con o senza accordo». Monti chiuderà costi quel che costi e ormai è iniziato il conto alla rovescia. Il negoziato deve terminare prima di domenica, quando il premier volerà in Estremo Oriente. Sono gli ultimi giorni di frenetiche trattative ma i margini di manovra, in termini di tempo, ormai sono ridotti. «Sto lavorando intensamente con grandissimo impegno - assicura Fornero, che però avverte -: la riforma andrà in Parlamento anche senza accordo». Escluse le dimissioni se l’intesa non dovesse arrivare («Le mie dimissioni non sono all’ordine del giorno», dice), il ministro si dichiara fiduciosa: «È difficile pensare che le parti sociali si tirino fuori». Anche perché per Monti la concertazione è fondamentale ma poi, discusso su tutto, il governo deve fare il governo: decidere. E le discussioni non sono certo mancate, come invece accaduto con la riforma delle pensioni. Sintetizza la Fornero: «Non possiamo andare avanti a discutere all’infinito». Si avvicina il redde rationem, quindi. Anche se il premier spera in un rasserenamento: «Se le posizioni non fossero ancora abbastanza distanti potrei dire che la riunione conclusiva ha già avuto luogo con successo.
Ma non solo, a breve arriverà il momento in cui Monti dirà «Ora basta». Fonti di palazzo Chigi sostengono che, se i veti della Cgil non dovessero cadere, il premier in persona sarebbe disposto a partorire una riforma ancora più strong rispetto a quella su cui si sta trattando. Se proprio la Camusso dovesse rompere definitivamente, allora il governo potrebbe essere più radicale nella sua riforma dell’articolo 18. E pazienza se la piazza si tingerà di rosso Cgil. In pratica si sta discutendo sui licenziamenti disciplinari. Una strada, quella soft per il governo, sarebbe quella di lasciare la scelta al giudice se optare per il risarcimento o il reintegro. Ma i sindacati non sono soddisfatti. Ecco che allora, se proprio non si dovesse arrivare a una riforma condivisa, Monti potrebbe spingere per la variante più estrema: solo risarcimento economico anche per i licenziamenti disciplinari. Rimarrebbe il reintegro solo e soltanto per i licenziamenti discriminatori. Una soluzione, questa, particolarmente gradita agli industriali. Insomma, con questa strategia Monti ritiene di far ragionare la Camusso in termini di opportunità: conviene di più perdere uno a zero o quattro a zero? Il premier confida in Bonanni (Cisl) ma soprattutto in Angeletti (Uil), la cui posizione è ancora più moderata.
Se la variante strong potrà andare in porto lo si saprà soltanto nei prossimi giorni, forse già domani, quando governo e parti sociali si ritroveranno attorno al tavolo di palazzo Chigi. Ultimi scampoli di una trattativa nella quale Monti si sente più forte.

Dalla sua ha una larga fetta della maggioranza che lo sostiene il Parlamento. Non solo: Pdl, Udc e Fli spingono perché il governo non sia timido. Fini quasi quasi auspica lo strappo: «Sarebbe meglio un articolo 18 solo per il licenziamento discriminatorio».

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