A proposito di «menti raffinatissime», «ricatti» e «attacchi» al presidente della Repubblica. La pubblicistica pro procura palermitana oltre a dimenticarsi la genesi «sinistra» della querelle col Quirinale, s'è scordata pure dei protagonisti dello scontro istituzionale che oggi si vuole far ricadere sul centrodestra e sui media di riferimento.
Fra i tanti che improvvisamente hanno smesso di lanciare bordate sul Colle c'è l'uomo che più di ogni altro ha attaccato Napolitano difendendo a oltranza il pm Ingroia e i colleghi pm: trattasi di Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, ammazzato da Cosa nostra in via D'Amelio. Un iperattivismo sacrosanto a caccia della verità, quello del parente del giudice ucciso. Ma non immune da critiche. Con le polemiche sulla ricorrenza della bomba del '92, Giuliano Ferrara, sul Foglio, il 19 luglio l'aveva messa così: «Il fratello Salvatore che agita - dopo tanti anni di silenzio, e sulla scia di una fanatica campagna mediatico-giudiziaria - l'agenda rossa del magistrato, un idolo polemico icona dell'antimafia come Massimo Ciancimino (...). La verità è che i parenti delle vittime non dovrebbero mai prestarsi a un uso partigiano del loro cognome (...). Quando si fanno partito, tendenza politica, squadra in caccia di fantomatici colpevoli, di storie fantomatiche, allora c'è, agli effetti della verità, una disumanizzante perdita di credibilità che inquina anche il dolore personale, lo trasforma in vendetta tribale, lo schiaccia sotto il peso di argomenti e battaglie di opinione che tolgono serietà all'inconcussa fedeltà dovuta alla memoria vera». L'articolo finiva in edicola sull'onda emotiva dell'ennesimo attacco al Quirinale portato dal parente del giudice a seguito del conflitto di attribuzioni sollevato presso la corte costituzionale: «L'intervento del presidente della Repubblica - arringava Borsellino nel sit-in davanti il tribunale di Palermo - è stato a gamba tesa. Non era tra le prerogative del capo dello Stato questo intervento sollecitato all'Avvocatura. Sentire che un ex ministro indagato per i suoi silenzi, chieda e sembra ottenga, l'appoggio del capo dello Stato, ci addolora e ci fa rabbia». Nel corteo delle «agende rosse» per solidarizzare con le toghe amiche impegnate nelle indagini sulla «trattativa», alle spalle di Salvatore (reduce da attestati di stima a Ciancimino jr) fioccavano slogan poco eleganti. Del tipo: «Nessun silenzio, nè baciamano, dal presidente Napolitano». L'indomani sempre Salvatore definì «agghiaccianti» le parole contenute nel messaggio del capo dello Stato laddove si denunciava la «sovrapposizione nelle indagini» di più procure su via D'Amelio. Per l'anniversario Salvatore s'era raccomandato ai «politici» di non azzardarsi a scendere in Sicilia e portare corone. L'unica eccezione il nemico pubblico della Prima carica dello Stato l'aveva riservata alla Terza carica (Gianfranco Fini), stringendole pubblicamente la mano a tre giorni da un'altra roboante esternazione: «Napolitano ha paura di quell'intercettazione con Mancino. Io non so cosa siano detti, ma se in quella intercettazione ci fossero rassicurazioni d'impunità da parte del capo dello Stato all'indagato Nicola Mancino, allora dovrebbe dimmettersi». Proprio così: dimissioni. Una soluzione estrema, «alternativa» alla scioccante richiesta di impeachment del capo dello Stato da lui stesso invocata un mese prima, il 22 giugno, ospite dalla rivista Micromega.
In quello stesso giorno l'Ansa aveva dato conto della pubblicazione di un suo volume («Fino all'ultimo giorno della mia vita», edito da Aliberti) laddove, senza mai citarlo, l'autore attaccava «un infastidito» presidente Napolitano «che stava per dare la grazia» al poliziotto Contrada «per un reato non concepibile per i reati di mafia».
Non contento del polverone sollevato, trascorsa una sola settimana dalla ricorrenza della strage, Salvatore confermava di aver presentato ai pm nisseni una richiesta di acquisire le telefonate tra Mancino e Napolitano e tra Mancino e il consigliere Loris D'Ambrosio, sulla cui morte per attacco cardiaco Borsellino solleverà dubbi nella trasmissione La Zanzara su Radio24 («in Italia tante persone coinvolte nelle inchieste, come quella su Ustica per esempio, sono morte per infarto. È un tarlo. Anche di Papa Luciani non sono chiare le ragioni della morte. E la stessa cosa riguarda la trattativa Stato-mafia. Parisi è morto per infarto come altri testimoni»).
L'obiettivo del parente, parte offesa nell'inchiesta di Caltanissetta, era chiaro: far confluire nella procura gemella le intercettazioni del Presidente per evitarne la distruzione. L'interessato, intervistato dal Fatto Quotidiano il 24 luglio, in tempi di dietrologie e ricatti non riuscì a trattenere le parole: «Napolitano dichiari di cosa ha parlato con Mancino e io recederò dalla mia iniziativa». Ad agosto il Nostro ha smesso di prendersela col capo dello Stato.
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