Tutti quelli che si vantano: il Cavaliere l'ho ucciso io

Dai politici alle toghe ai giornalisti: adesso c'è persino la gara tra chi vuole attribuirsi la decadenza di Berlusconi

Tutti quelli che si vantano: il Cavaliere l'ho ucciso io

La sconfitta, diceva John Keats, è orfana; mentre la vittoria ha moltissimi padri. Il meno che ci si potesse aspettare, quindi, era la fila allo sportello dell'anagrafe dei presunti papà ansiosi di registrare a proprio nome quella discutibilissima vittoria che per una parte dell'Italia rappresenta l'espulsione di Silvio Berlusconi dal Senato della Repubblica. Poi magari una pernacchia seppellirà questa sfilza di tristi sciacallini, e la vittoria diventerà soltanto di Pirro. Ma intanto va così.
Eccoli, i papà della «grande cacciata». L'elenco è lungo, mettetevi comodi. Si potrebbe partire da Marco Travaglio, che è là che alza la manina, non sta nella pelle. «Se ieri per la prima volta nella storia il Parlamento ha espulso un pregiudicato - scriveva ieri sul Fatto Quotidiano - il merito (...) è anzitutto (di) un pugno di giornalisti, alcuni dei quali scrivono su questo giornale». E a proposito di quotidiani, it's party time sulle pagine di Repubblica, il giornale con più lunga militanza antiberlusconiana. Che celebra un po' prematuramente la chiusura di un ventennio con un lungo coccodrillo in vita firmato Filippo Ceccarelli.
Ecco venire avanti una schiera di magistrati, in testa Antonio Esposito, il presidente della sezione feriale della Corte di Cassazione che ha messo il turbo al processo Mediaset confermando la condanna per frode fiscale a carico del Cav. Ieri Dagospia avvistava Esposito col collega Piercamillo Davigo allo Splendor Parthenopes, locale partenopeo a pochi metri dal Palazzaccio, sede della Cassazione. Il clima pare fosse ilare. E chissà che non sia stata stappata una bottiglia per un brindisi aumm' aumm'. Ma altre toghe possono disporre sul caminetto la testa del Cav come trofeo di caccia. Elenca Travaglio: «Il tanto bistrattato pm Fabio De Pasquale, i collegi di tribunale e d'appello presieduti da Edoardo d'Avossa e Alessandra Galli, che hanno condotto indagini e dibattimenti sul caso Mediaset con fermezza e correttezza».
Ecco che s'avanza Beppe Grillo a rivendicare la sua fetta di merito: il voto palese «sulla decadenza del senatore Silvio Berlusconi» è stato strappato «grazie al M5S», si legge sul blog del comico. Poi in aula è stata Paola Taverna a vantarsi fiera: «Ci siamo ripresi un potere che era stato strappato ai cittadini». E Pietro Grasso, presidente del Senato? Ha pronunciato la decadenza di Berlusconi, ma soprattutto fino all'ultimo ha obliterato lo stravolgimento delle regole stabilito dalla giunta per le elezioni con la scelta del voto palese che ha costretto i senatori al rispetto della disciplina di partito. «Io sono un arbitro», ha ripetuto più volte Grasso. Saremo buoni e gli risparmieremo la moviola. E a proposito di figure formalmente terze, se non padre almeno nonno della decadenza del Cav è pure il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il custode delle larghe intese che però sembra intenzionato a sopravvivere allo svuotamento delle stesse. È lui che molti indicano come il mandante dell'esecuzione di Berlusconi: obiettivo raggiunto e fedina penale pulita. Tra i tanti mezzucci impiegati, quello di nominare un pugno di senatori a vita antiberlusconiani, alcuni dei quali hanno scoperto solo mercoledì l'indirizzo di Palazzo Madama, servendo il loro voto.
E poi c'è Enrico Letta, il premier che nel giorno dello sbianchettamento del Cav ha pensato bene di celebrare i risultati del suo governo e dire ai quattro venti: «Ora siamo più forti». C'è il segretario pro tempore del Pd Guglielmo Epifani che si bulla di aver affermato «lo stato di diritto e il suo principio base, ovvero che la legge è uguale per tutti». C'è perfino Mario Monti a gonfiare il petto: «Non è stata la sinistra, non è stato il M5S a portare a questo fatto riguardante il senatore Berlusconi - dice l'ex premier con sintassi rivedibile - a è stato un governo di grande coalizione, che io presiedevo, sul finire del 2011».

E anche Paola Severino, ministro della Giustizia di quel governo, può gloriarsi di aver battezzato la legge che è costata a Berlusconi lo scranno di Palazzo Madama. «Una legge giusta», ripete come un mantra. Lo dirà la Corte Costituzionale.

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