Londra 2012

Grimaldi e Idem, l'orgoglio della fatica

Grimaldi e Idem, medaglie al valore dello sforzo: nuotare per dieci chilometri, volare in canoa a quasi 50 anni per santificare il sacrificio

Grimaldi e Idem, l'orgoglio della fatica

La fatica fa male. Non c'è niente di naturale nella dieci chilometri di nuoto. Guarda Martina Grimaldi quando esce dal lago di Hyde Park: trema per stanchezza, non per emozione. Medaglia al valore dello sforzo. Senti Josefa Idem: ha il fiatone quando parla alla fine dell'ultima gara della vita. Quinta a pochi decimi dal podio. A 48 anni. Sì, la fatica fa male. È una piaga alle mani, una ferita alla pianta del piede, è il fiato che manca. Si sente, c'è. Serve. È bella. È il mezzo, poi diventa il fine. Godi ad arrivare sfinito.

Londra racconta in un giorno due generazioni di italiane che hanno santificato il sacrificio. Fagli la domanda più scontata, dai: ne vale la pena? «Sì», ti dicono tutte e due. Da ventenne, come la Grimaldi; da cinquantenne, come la Idem. Venite qui, entrambe, perché qualcuno vi massaggerà: lo sport è il corpo che chiede a se stesso di spingersi al limite. Qualunque sofferenza pur di arrivare al traguardo. Diverse e simili: una dentro l'acqua, l'altra appena fuori. Una con le braccia, l'altra con i remi. Una entra, l'altra esce. Se le prendi e le fondi trovi la sintesi. Martina Grimaldi e Josefa Idem sono le anti Schwazer: Alex ha avuto il rigetto, loro si esaltano. Ne farebbero un'altra di gara, con la testa. Glielo impedisce il corpo perché non ce la fa. È l'elogio della fatica. Quella che fa male, quella stupenda.

Ci sono 24 anni di differenza, c'è una vita in mezzo, una del 1964 e l'altra del 1988: se si mettono a parlare di quella cosa lì, della fatica, non hanno bisogno del traduttore generazionale. Non cambia con l'età. Si materializza con le gambe che non reggono, con i polmoni che sembrano sgonfi, con la testa che non ti segue. La lucidità che se ne va è la droga dell'atleta: quella sensazione di estasi momentanea che s'accompagna al dolore fisico. Senti la fitta e capisci che sei arrivato al tuo limite. È lì che c'è lo scatto: se ci sei godi, se non ci sei ti consumi. Se perdi la voglia di sbatterti, sei fuori dal tuo mondo. Succede. È successo a Schwazer, adesso. Ma non è da solo. Grimaldi e Idem sono l'immagine alternativa: senza parlare ti dicono che c'è chi continua a bearsi nel sacrificio. Lui schifato dal suo sport, loro innamorate. Fa male? E chissenefrega. È come girare pagina e trovare la risposta: agli ultimi duecento metri di gara, Grimaldi spinge ancora. Sente l'avversaria che arriva, sente il terrore della sconfitta. E va: si capisce che è stanca, ma nuota ancora. Tocca il traguardo, si toglie la cuffia, sorride. Bronzo, con tutto il sacrificio del mondo. Che cosa c'è di speciale nel tuffarsi in un'acqua putrida, stagnante, pesante e distruggerti di fatica per due ore? Che cos'è che ti spinge a continuare a cercare la barriera delle tue prestazioni alla ottava Olimpiade, con due figli e il corpo che non è più quello del 1992? Si gira sempre attorno all'impegno, a quella risorsa che accarezza il talento per dirgli: senza di me non vai da nessuna parte. È qualcosa che non c'entra neanche con lo sport che scegli. È un'attitudine, non solo una prassi. I campioni faticano tutti: Usain Bolt sembra un allegro nullafacente, uno che ha ricevuto un dono dal Signore e lo sfrutta, sportivamente ed economicamente. Sorride e si massacra. In questi giorni ha raccontato che cosa sia allenarsi per i cento e i duecento metri. Non è la maratona, è altro: è comunque un sacrificio. Cambia l'immagine, non la predisposizione: anche tra i dieci chilometri di Grimaldi e i 500 metri in canoa di Idem c'è differenza. Però fallo a 48 anni e poi ne riparliamo.

Se le spremi, Martina e Josefa sono la stessa storia anomala. L'uomo corre per natura: non nuota e non rema. Quelli sono sforzi in più, sono il cervello che dice al corpo di fare qualcosa: spingi che ce la fai. La fatica è una compagnia: quando ci vivi insieme puoi anche non privartene più. C'è chi molla, chi non la sopporta, chi ci convive bene per 28 anni e poi entra in crisi. Se fai la domanda di prima: chi te lo fa fare? Lui ti risponderà «Non lo so». La fatica si vince solo se lo vuoi. È la sottile differenza tra un'atleta e un ex. L'età conta zero. Può aiutare a raggiungere un risultato, non decide se sei uno sportivo o no.

Quello l'ha già stabilito la tua testa, prima del tuo corpo.

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