Grimaldi e Idem, l'orgoglio della fatica
10 Agosto 2012 - 07:00Grimaldi e Idem, medaglie al valore dello sforzo: nuotare per dieci chilometri, volare in canoa a quasi 50 anni per santificare il sacrificio
La fatica fa male. Non c'è niente di naturale nella dieci chilometri di nuoto. Guarda Martina Grimaldi quando esce dal lago di Hyde Park: trema per stanchezza, non per emozione. Medaglia al valore dello sforzo. Senti Josefa Idem: ha il fiatone quando parla alla fine dell'ultima gara della vita. Quinta a pochi decimi dal podio. A 48 anni. Sì, la fatica fa male. È una piaga alle mani, una ferita alla pianta del piede, è il fiato che manca. Si sente, c'è. Serve. È bella. È il mezzo, poi diventa il fine. Godi ad arrivare sfinito.
Londra racconta in un giorno due generazioni di italiane che hanno santificato il sacrificio. Fagli la domanda più scontata, dai: ne vale la pena? «Sì», ti dicono tutte e due. Da ventenne, come la Grimaldi; da cinquantenne, come la Idem. Venite qui, entrambe, perché qualcuno vi massaggerà: lo sport è il corpo che chiede a se stesso di spingersi al limite. Qualunque sofferenza pur di arrivare al traguardo. Diverse e simili: una dentro l'acqua, l'altra appena fuori. Una con le braccia, l'altra con i remi. Una entra, l'altra esce. Se le prendi e le fondi trovi la sintesi. Martina Grimaldi e Josefa Idem sono le anti Schwazer: Alex ha avuto il rigetto, loro si esaltano. Ne farebbero un'altra di gara, con la testa. Glielo impedisce il corpo perché non ce la fa. È l'elogio della fatica. Quella che fa male, quella stupenda.
Ci sono 24 anni di differenza, c'è una vita in mezzo, una del 1964 e l'altra del 1988: se si mettono a parlare di quella cosa lì, della fatica, non hanno bisogno del traduttore generazionale. Non cambia con l'età. Si materializza con le gambe che non reggono, con i polmoni che sembrano sgonfi, con la testa che non ti segue. La lucidità che se ne va è la droga dell'atleta: quella sensazione di estasi momentanea che s'accompagna al dolore fisico. Senti la fitta e capisci che sei arrivato al tuo limite. È lì che c'è lo scatto: se ci sei godi, se non ci sei ti consumi. Se perdi la voglia di sbatterti, sei fuori dal tuo mondo. Succede. È successo a Schwazer, adesso. Ma non è da solo. Grimaldi e Idem sono l'immagine alternativa: senza parlare ti dicono che c'è chi continua a bearsi nel sacrificio. Lui schifato dal suo sport, loro innamorate. Fa male? E chissenefrega. È come girare pagina e trovare la risposta: agli ultimi duecento metri di gara, Grimaldi spinge ancora. Sente l'avversaria che arriva, sente il terrore della sconfitta. E va: si capisce che è stanca, ma nuota ancora. Tocca il traguardo, si toglie la cuffia, sorride. Bronzo, con tutto il sacrificio del mondo. Che cosa c'è di speciale nel tuffarsi in un'acqua putrida, stagnante, pesante e distruggerti di fatica per due ore? Che cos'è che ti spinge a continuare a cercare la barriera delle tue prestazioni alla ottava Olimpiade, con due figli e il corpo che non è più quello del 1992? Si gira sempre attorno all'impegno, a quella risorsa che accarezza il talento per dirgli: senza di me non vai da nessuna parte. È qualcosa che non c'entra neanche con lo sport che scegli. È un'attitudine, non solo una prassi. I campioni faticano tutti: Usain Bolt sembra un allegro nullafacente, uno che ha ricevuto un dono dal Signore e lo sfrutta, sportivamente ed economicamente. Sorride e si massacra. In questi giorni ha raccontato che cosa sia allenarsi per i cento e i duecento metri. Non è la maratona, è altro: è comunque un sacrificio. Cambia l'immagine, non la predisposizione: anche tra i dieci chilometri di Grimaldi e i 500 metri in canoa di Idem c'è differenza. Però fallo a 48 anni e poi ne riparliamo.
Se le spremi, Martina e Josefa sono la stessa storia anomala. L'uomo corre per natura: non nuota e non rema. Quelli sono sforzi in più, sono il cervello che dice al corpo di fare qualcosa: spingi che ce la fai. La fatica è una compagnia: quando ci vivi insieme puoi anche non privartene più. C'è chi molla, chi non la sopporta, chi ci convive bene per 28 anni e poi entra in crisi. Se fai la domanda di prima: chi te lo fa fare? Lui ti risponderà «Non lo so». La fatica si vince solo se lo vuoi. È la sottile differenza tra un'atleta e un ex. L'età conta zero. Può aiutare a raggiungere un risultato, non decide se sei uno sportivo o no.
Quello l'ha già stabilito la tua testa, prima del tuo corpo.