"Ho avuto novecento uomini E non sono una prostituta"

Cheryl Cohen Greene è una "partner surrogata": aiuta i pazienti a risolvere i loro problemi sessuali. E la sua storia ha ispirato il film The Sessions

"Ho avuto novecento uomini E non sono una prostituta"

Quando racconta che nella vita ha avuto più di novecento partner, quasi tutti hanno lo stesso pensiero. In televisione, alle conferenze, Cheryl Cohen Greene appare come una signora di quasi settant'anni, con il suo accento di Boston, un secondo marito e due figli: e sì, davvero ha avuto novecento partner, per lavoro, perché da quarant'anni è una «partner surrogata». Una figura nata dalle parti di San Francisco negli anni Settanta, più o meno quando lei si trasferì in California col primo marito e che non ha a che fare con le madri surrogate e gli uteri in affitto, e neanche con la prostituzione («quello è uno dei mestieri più antichi del mondo, il mio è uno dei più recenti»): è una forma di assistenza a chi ha problemi di tipo sessuale, per esempio chi ha disfunzioni o disabilità.
Un lavoro che non è molto diffuso o pubblicizzato, che sconfina in un territorio in gran parte ancora tabù. Ora la questione della vita sessuale dei disabili è arrivata anche al cinema, con il film The Sessions, storia del poeta Mark O'Brien, costretto a vivere in un polmone d'acciaio a causa della poliomelite, e della terapeuta (Helen Hunt) che lo aiuta a realizzare il suo sogno, perdere la verginità. Quella terapeuta è proprio Cheryl Cohen Greene, il film racconta una delle esperienze più intense della sua vita da partner surrogata: «Mark era paralizzato - racconta al telefono da Berkeley - ma riusciva a comunicare in modo profondo. Era un uomo straordinario e amo sapere di avere contribuito a renderlo più felice». È grazie alle sedute con Cheryl, alle sue Sessioni d'amore, come si intitola la sua autobiografia (appena pubblicata in Italia da Corbaccio), che Mark O'Brien riesce a vivere l'esperienza del sesso: «Non ci siamo innamorati, ma siamo diventati amici. Qualche anno dopo mi telefonò e mi disse che aveva trovato una donna e che era felice che, grazie a me, non fosse più vergine».
Così è il lavoro di Cheryl Cohen Greene: «Dopo quarant'anni non sono ancora stanca, è meraviglioso vedere il cambiamento nelle persone. Io li aiuto a entrare in confidenza col loro corpo, col sesso, a imparare a parlare con le donne, a capire che ogni donna è diversa. Ad avere una relazione buona con gli altri. Dò informazioni sul sesso, non quelle degli amici o della pornografia». Tutto avviene all'interno di una terapia: è lo psicologo che chiama, se necessario, la partner surrogata. E a quel punto lei entra in gioco con «due ore di sessioni, molto serie, due volte al mese», per un minimo di sei a un massimo di quattordici volte. I pazienti di solito sono maschi, ci sono «fattorini, autisti, giudici, manager», l'età va «dai venti-trent'anni ai novantadue» (giura che davvero un paziente di 92 anni sia andato nel suo studio a Berkeley, guidando da solo).
Di recente anche in Italia un web designer toscano che soffre di distrofia muscolare, Max Ulivieri ha lanciato una petizione on line per chiedere che la figura dell'assistente sessuale sia riconosciuta, per aiutare i disabili a vivere la propria sessualità. Cheryl Cohen Greene racconta che quando ha cominciato negli Stati Uniti i «sex surrogate» erano circa duecento, oggi sono una cinquantina. Visto da fuori, il problema numero uno del suo mestiere è semplicissimo: che differenza c'è con la prostituzione? «Se lo chiedono tutti, molti anche ad alta voce. Io insegno ai miei clienti, è diverso dal fare sesso, li guido, li aiuto a uscire nel mondo reale, ad aprirsi, a capire l'altra persona, a rendere la loro esperienza sessuale matura e divertente». C'è quel numero, i novecento partner, che è difficile togliersi dalla testa: «Non ho fatto sesso proprio con tutti. Diciamo con ottocento. Però sa, gli uomini hanno un doppio standard. Quando lo racconto negli occhi delle persone vedo il pregiudizio. Ma se fossi un maschio riceverei un applauso... Invece è un lavoro, la verità è che molti non sanno neanche quello che faccio, non lo capiscono. Pazienza: non tutti possono capire». I suoi due mariti ci sono riusciti: il primo «era a suo agio», il secondo, un ex veterano del Vietnam, «era un cliente».

I figli? «Me l'hanno chiesto quando avevano sei e nove anni, io gli ho spiegato: aiuto le persone a sentirsi meglio con la loro vita sessuale. Non si sono mai vergognati di me». Con la famiglia cattolica, a Boston, è stato diverso: «Mia madre era orripilata. Per lei era qualcosa di impuro. Mi ha urlato che saremmo finiti tutti all'inferno».

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