Cronache

"Ho rubato reperti storici negli scavi di Pompei. Nell'indifferenza di tutti"

Pietre antiche trovate per terra e il frammento di una "stele" spezzata poggiata a un muro. Sono alcuni dei reperti finiti nella borsa dell'inviato del Giornale. Nessuno lo ha scoperto

"Ho rubato reperti storici negli scavi di Pompei. Nell'indifferenza di tutti"

Nostro inviato a Pompei

Il sole batte forte tra gli scavi di Pompei. Lo zainetto pesa. È colmo di ruderi archeologici. Sono macerie di vecchie mura risalenti all'eruzione vesuviana del 79 d.C.: «vestigia del passato», le definirebbe Piero Angela, idem il figlio Alberto. Ignoro il loro valore (non quello degli Angela senior e junior, intendo quello delle pietre appena raccattate ndr). Però so per certo che raccoglierle da terra e nasconderle nella mia borsa nera è stata la cosa più facile del mondo. Nessuno mi ha visto. Nessuno poteva vedermi. La ragione? Semplicissima. Attorno a me, nel raggio di decine di metri, non c'era neppure un custode, né una telecamera di sorveglianza.
In compenso, durante la furtiva passeggiata col bottino archeologico a tracolla, ho incrociato lo sguardo stupito di qualche turista che, buttando un occhio alla mia borsa, forse è stato attraversato da un dubbio: «Ma che ci fa quello lì con la sacca piena di pietre. Non le avrà mica rubate?».

Per qualche metro ho proceduto lungo via dell'Abbondanza (la strada che sta all'antica Pompeii come via Condotti sta alla Roma moderna) perfino con una «stele» sulle spalle indicante il luogo di provenienza del maltolto: Casa della nave europea, una delle domus più ammirate dai visitatori. Ma anche in questo caso, nessuna reazione da parte dei custodi. Anche perché di custodi - lo ribadiamo - non ne abbiamo mai incontrati. Anzi no, per la precisione siamo incappati in una «guardia» solo davanti al Tempio di Apollo, tra le mete più gettonate del tour pompeiano.
Ovviamente non in tutta la vasta area del parco archeologico la situazione è la stessa. Ci sono infatti anche zone (quelle ad esempio in prossimità della Villa dei Misteri e di Casa di Sallustio (nulla a che vedere con il direttore del Giornale...) dove i controlli risultano meno - diciamo così - aleatori. Pretendere che l'intera Pompei venga presidiata da occhi umani e tecnologici sarebbe utopistico, ma esigere maggiore sicurezza sì, questo si può - e si deve - fare. All'uscita degli scavi capita infatti di vedere visitatori che si trascinano pesanti borsoni (ben più ampi del mio) che non vengono controllati dai vigilanti del parco archeologico. E non per cattiva volontà dei sorveglianti, ma proprio perché il «mansionario dei custodi» non prevede che tali controlli rientrino nelle loro competenze. Di un metal (anzi, pietral) detector, neppure a parlarne.

Ma torniamo al mio furto archeologico. Per evitare grane giudiziarie, provvedo hic et nunc (pregasi apprezzare la proprietà di linguaggio arcaico-pompeiano ndr) a confessare la mia marachella all'assessore comunale alla Legalità, dottor Diego Marmo, il pm (ora in pensione) che definì il presentatore di Portobello un «cinico mercante di morte». Hai visto mai che il giudice Marmo definisca pure me un «cinico mercante di reperti archeologici»?
Quindi ecco di seguito, nero su bianco, la mia piena confessione.

«Illustre ex procuratore Marmo, lo ammetto, ho rubato. Ma l'ho fatto a fin di bene. Per dimostrarLe che nella necropoli più famosa del mondo abbondano anime morte - ma soprattutto vive - che la depredano quotidianamente. Io, dopo il furto dimostrativo, ho rimesso tutti i reperti al loro posto. Insomma, ho metaforicamente riattaccato i cocci dopo averli rotti. Ma posso assicuraLe che nessuno fa altrettanto. In tanti, purtroppo, hanno trasformato la città incenerita dal Vesuvio in un supermarket del souvenir archeologico. Per quanto mi riguarda, mi affido alla clemenza della corte. Distinti saluti e auguri per la Sua nuova carriera politica».

Chiarita - si spera - la mia posizione penale di «tombarolo praticante» («praticante» nel senso di apprendista alle prime armi ndr), va riconosciuto onestamente che al neo assessore Marmo non può essere imputata la responsabilità del degrado in cui versa Pompei. Ma piano con le definizioni. Alla parola «degrado», ad esempio, il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, e il Soprintendete di Pompei, Massimo Osanna, vanno sempre su tutte le furie.
Franceschini sostiene che «è in corso da parte di alcuni mass media una campagna diffamatoria contro Pompei»; Osanna fa l'offeso, tuonando che «è ora di finirla con la logica morbosa del discredito».
Insomma, secondo l'autorevole coppia Franceschini-Osanna, alcune non precisate forze del male avrebbero ordito un complotto contro l'immagine di Pompei.
I colpevoli di tale ignobile macchina del fango? Forse quei 500 turisti che qualche settimana fa sono rimasti fuori dagli scavi, causa assemblea sindacale dei custodi.

I quali custodi sono gli unici possessori delle chiavi - manco fossero tanti San Pietro - dei cancelli d'accesso al paradiso di Pompei.
Paradiso?

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