RomaUn bidone per olio da duecento chili con dentro resti umani, sezionati e parzialmente sciolti nell'acido. A fare la macabra scoperta è stato un elettricista, che l'altra sera stava effettuando lavori di manutenzione in un capannone a Casalguidi, nel comune di Serravalle Pistoiese.
L'uomo ha trovato il grosso contenitore di ferro, non visibilie dall'esterno, nascosto in un'intercapedine a due metri di altezza, tra le due canne fumarie di un forno di verniciatura. È bastato l'odore acre e pungente a svelare che all'interno c'erano resti organici, probabilmente di un uomo, in avanzato stato di composizione.
Gli uomini della squadra mobile di Pistoia conoscevano già il capannone, in passato al centro di una vicenda che, con la macabra scoperta di ieri, assume contorni più netti. I locali, che sono stati dati in affitto da qualche mese ad un'impresa edile e a un'officina, appartengono infatti a Luigi Orefice, 45 anni, imputato a Firenze perché accusato di aver ucciso e soppresso il cadavere del fratello, Rosario Orefice, scomparso senza lasciare traccia il 30 aprile 2010. Dell'uomo non si sa più nulla da quattro anni e non è escluso che appartengano a lui quei brandelli umani. Solo l'esame del dna potrà contribuire ad identificare il cadavere e stabilire se si tratta dello scomparso e quali sono state le cause del decesso. Qualora i sospetti fossero confermati, si aggraverebbe ulteriormente la posizione di Luigi Orefice, sotto processo dal 4 dicembre 2013 in Corte d'assise, a Firenze.
«Il mio cliente è molto provato da questa cosa - commenta l'avvocato Guido Tesi - ma non cambia di una virgola la sua posizione. Si ritiene estraneo alla vicenda e continua a proclamarsi innocente».
Secondo l'accusa il movente del delitto sarebbe stato di natura economica. Rosario, infatti, negli ultimi tempi era diventato titolare dell'ex verniceria di Casalguidi, avviata qualche anno prima da Luigi. Problemi economici avrebbero deteriorato i rapporti tra i due, originari di Caserta. Luigi ha però sempre smentito l'esistenza di contrasti, spiegando che l'azienda era intestata al congiunto solo perché lui aveva vecchi problemi di natura finanziaria, ma che i soldi messi nell'impresa erano i suoi e Rosario percepiva un regolare stipendio.
Per due volte la Procura ha chiesto la misura cautelare nei confronti dell'imputato, ma senza successo. «Ci sono molte cose strane in questa vicenda anche si trattasse davvero dei resti di Rosario Orefice - sottolinea il legale -. Quel capannone fu setacciato a suo tempo in lungo e in largo. Come mai quei resti spuntano così, solo adesso?» Qualcuno potrebbe averli portati là recentemente.
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