Rimborsi e voto anticipato, il sindaco spacca il partito

I suoi: via il finanziamento pubblico. Il clan Bersani s'infuria

Il sindaco di Firenze Matteo Renzi
Il sindaco di Firenze Matteo Renzi

Roma - Nel saloon del Nazareno, che si ostinano a chiamare Pd, è ancora vietato sparare sul pianista. Ne verrebbe fuori una rissa colossale, tanta e tale è l'unanimità dei consensi.
Quella che al momento è la puntata decisiva, il Quirinale, ne sottintende una seconda, altrettanto decisiva, Palazzo Chigi. Ma il problema, per dirla con parole d'osteria, è che la partita si gioca col morto. Politicamente morto è Bersani, che, in un qualsiasi Paese normale, non avendo vinto né convinto, sarebbe già ritirato a casa. Morto in senso tecnico, alluso più che pronto all'uso, è Romano Prodi, che Bersani utilizza come colpo in canna per il Cavaliere. E morto, in quanto convitato di pietra, è pure Matteo Renzi («Meglio un governo credibile o si torni a votare a giugno»), sicuro prossimo federatore di molte anime, ma ancora in cerca di uno spartito che gli consenta di suonare. O suonargliele, se vogliamo. Spartito dal titolo «elezioni», ma non ancora maturato. Peggio: se maturasse in fretta, rischierebbe di bruciarlo. Se fosse frutto tardivo, lo troverebbe marcito.
«La questione - argomentava ieri un esponente piddino di primo piano - è come riuscire a portare l'intero gregge a Renzi senza spargimento di sangue». Così non si può dare tutta la colpa della stasi all'ostinazione di Bersani - forse uno dei meno vanitosi dei politici con una carriera alle spalle - quanto piuttosto al terrore che mezzo partito nutre nei confronti della diaspora e del lupo fiorentino, il rottamatore trentenne che ha forse già messo in conto di dover perdere parte del gregge, ma che di sicuro già pensa a come rimpiazzarlo. Smagliante la sua velocità di reazione, paragonata a quella del sessantenne rivale. Decisiva la sua battaglia: non per inseguire i grillini, ma per sfidarli. All'indomani delle elezioni Renzi aveva proposto la restituzione dei 45 milioni di rimborso elettorale. Ieri una decina di senatori a lui vicini (Marcucci, De Giorgi, Collina, Ginetti, Cociancich, Cantini, Del Barba, Del Monte, Lepri e Morgoni) ne hanno fatto una proposta di legge di abrogazione per il futuro, e l'hanno presentata. Figurarsi lo scandalo e sconquasso, in un partito che si tiene su con lo sputo e l'odore dei soldi. Mirabile per anacronistico imbarazzo la prosa del tesoriere Antonio Misiani: «Non riflette una proposta del Pd, la linea del segretario è quella di una riforma più ampia... blablabla. È un contributo, ne verranno altri e ne discuteremo nel partito...».
E se il renziano Richetti invoca una direzione per far mutar linea al partito e Di Bartolomei perché «non si può continuare a far finta di nulla», Bersani impertubabile gioca la sua resta per un bluff che tutti al tavolo hanno intuito. Fingere disponibilità verso Berlusconi (in gergo pokeristico: cip), attendere la puntata (un nome del Pdl), chiedere una contropartita per varare il suo governo (rilancio), insistere agitando lo spettro di un'elezione di Prodi (secondo rilancio), «tanto abbiamo i numeri». In realtà neppure quelli sono sicuri, così come l'arrivo dell'asso di cuori. Almeno un centinaio di parlamentari del Pd sono assai poco propensi a votare l'ex premier nel segreto della quarta votazione.

Né al momento i segnali che giungono da Grillo possono far sperare in un soccorso stellare a quello che fu buon conoscente di Casaleggio. Un'arma spuntata, quella di Bersani. Anzi, forse una pallottola per due. Suicidi.

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