MilanoCi sono tre accuse che pesano sul capo di Paolo Berlusconi, editore del Giornale. Due sono infamanti: avere preteso e incassato centinaia di migliaia di euro, millantando l'appoggio del fratello Silvio a un progetto made in Italy da impiantare in Romania. La terza è la meno disonorevole, specie per un editore: pubblicazione di atti coperti da segreto, per avere procurato l'intercettazione telefonica tra Piero Fassino e Giovanni Consorte di Unipol, in cui il segretario Ds festeggiava (incautamente e prematuramente) la conquista della Banca Nazionale del Lavoro da parte dell'assicurazione amica.
Di tutte e tre le accuse, ieri Paolo Berlusconi è venuto in tribunale a proclamarsi innocente. Consapevole che per l'accusa di violazione del segreto la Procura un elemento in mano (fattuale, per così dire) ce l'ha: la prima pagina del Giornale che il 30 dicembre 2005 disvelò il famoso «Abbiamo una banca!». «Io quella intercettazione non l'ho mai ascoltata», dice in aula Berlusconi junior, ma ammette di avere manifestato il suo interesse per averne una copia, e riconosce che questo può avere innescato dinamiche di cui si sente responsabile. Ma è alle altre accuse, la ricettazione e il millantato credito, che il fratello del Cavaliere dedica la parte più accorata del suo monologo. È una autodifesa preparata a lungo insieme al suo legale Federico Cecconi, cui di notte, prima dell'udienza, ha aggiunto una riflessione a penna: in cui definisce il processo «un clamoroso errore di persona», «un incredibile castello di bugie costruito da un uomo che è sempre vissuto di truffe», «un piano criminale che non riesco a definire diabolico ma semplicemente ingenuo e puerile».
Paolo Berlusconi ce l'ha con Fabrizio Favata, imprenditore in disgrazia e suo grande accusatore: è Favata che ha raccontato, prima ai giornali di sinistra e poi ai pm, di avere portato ai due fratelli Berlusconi la copia della registrazione di Fassino passatagli da uno degli interceptor che lavoravano per la Procura, Roberto Raffaelli. Ed è Favata a raccontare di avere portato per dieci mesi, puntualmente, quarantamila euro a Paolo Berlusconi nella sede del Giornale, per oliare il progetto di vendere al governo rumeno le tecnologie di Raffaelli.
Balle, dice ieri l'editore: «Favata veniva a trovarmi, e mi portava solo della focaccia di Recco. Io gli dissi di smetterla perché mi tornava pesante, ma lui insisteva. E io la regalavo alle segretarie». E i soldi, provenienti dai fondi neri di Raffaelli, dove finivano? Nelle tasche di Favata, il grande accusatore; così ritiene Paolo Berlusconi, e così pure l'intercettatore Raffaelli, interrogato appena prima.
Oggi Favata, dopo essere assurto alle glorie mediatiche come superteste, è un uomo rovinato e disperato: che ieri, interrogato anche lui, crolla sotto le domande, ed esce dall'aula in lacrime urlando «maledetti», e poi in corridoio spiega ai cronisti che «questo processo è una guerra per bande», che lui non ha come mantenere la famiglia, che anche i giornalisti (per alcuni dei quali ha espressioni dolorosamente volgari) lo hanno tradito; eccetera, in un profluvio di rabbia in cui è difficile (e lo sarà anche per i giudici) trovare il bandolo della verità.
Di vero, dice in realtà Paolo Berlusconi, non c'è assolutamente niente, se non il ricatto con cui Favata cercò ancora a lungo di spillargli i quattrini: «E non l'ho denunciato solo perché sono stato educato dai salesiani».
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