Internet senza regole: Google non è colpevole neanche per i video choc

Internet senza regole: Google non è colpevole neanche per i video choc

Milano Condanne cancellate. E Internet torna ad essere una prateria dove la libertà regna sovrana, senza possibilità di controlli reali su quanto viene scaraventato nei centilioni di bytes sparsi per il pianeta. Google, stabilisce ieri la Corte d'appello di Milano, non è responsabile dei contenuti che vengono quotidianamente scaricati nei computer di tutto il mondo: e nei quali l'onnipotente motore di ricerca basato a Mountain View istrada i navigatori di ogni lingua e razza. È una retromarcia della giustizia: venti mesi fa un altro giudice aveva detto il contrario, e la condanna per violazione della privacy di David Drummond, numero uno di Google Italy, e di altri due manager del colosso era echeggiata senza confini. Per la prima volta, qualcuno di fisicamente identificabile, qualcuno che potesse davvero esserne chiamato a rispondere, veniva condannato. Per il web, era la fine dell'anarchia. Ora invece quelle condanne vengono cancellate, e la libertà assoluta torna a regnare. La libertà di esprimere pensieri, ideali ed emozioni. Ma anche quella di insultare, diffamare, incitare all'odio.
Era giusto scaricare su Google - monopolista di fatto dei motori di ricerca - il carico di vagliare quantità enormi di informazioni, stabilendo d'autorità cosa si potesse o non potesse rivelare al mondo? «La legge non può obbligare a doveri impossibili», avevano detto Giulia Bongiorno e Tomaso Pisapia, difensori del colosso, per convincere i giudici d'appello a azzerare la sentenza. Ieri la Corte d'appello dà loro ragione. Di fronte alla massa inverosimile di contenuti del web, sarebbe un'utopia - in vago odore di Grande Fratello - attribuire a chicchessia il compito di dividere il grano dal loglio, i contenuti leciti da quelli inammissibili.
Ma, spazzata via la responsabilità di Google, resta il nulla. Nel caso specifico esaminato ieri dai giudici, un colpevole a dire il vero c'è: ed è la ragazzina che spensieratamente pubblicò su Internet il video di un compagno di classe disabile vilipeso e svillaneggiato. La ragazza è già stata identificata, processata e condannata. Ma si tratta di un caso, o poco più: perché, non rendendosi nemmeno conto della gravità di quanto andava combinando, la studentessa non fece nulla per mascherare la sua identità e ostacolare la ricerca dell'indirizzo Ip da cui partiva l'indegno video.
Poiché - come ognuno sa - rendere irrintracciabile il computer di provenienza di un contenuto è un gioco da ragazzini, era e resta cruciale la questione della responsabilità di chi veicola e diffonde i contenuti. Un contenuto web non è niente se non è rintracciabile nei motori di ricerca, nei grandi siti, nei blog. Un contenuto irraggiungibile è come uno sputo nel mare. A rendere devastante quanto viene scaricato su Internet è la sua possibilità di essere trovato, evidenziato, linkato, di spargersi come un virus nella rete.

É in questo passaggio, dal singolo computer del singolo utente ai signor di Internet, che la sentenza di primo grado contro Google individuava il ganglio vitale da sottoporre a controllo. Era una sentenza che nel deserto di leggi all'altezza dei tempi sollevava un problema: chi risponde? Nessuno, dice la sentenza di ieri.

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