L’addio: «Rancore più forte della verità»

L’addio: «Rancore più forte della verità»

RomaEspulsa. Rosi Mauro viene cacciata dalla Lega dopo un consiglio federale di guerra. Con in più il giallo: pare che il voto finale sulla sorte della «badante» sia arrivato mentre Bossi, Reguzzoni e Giorgetti erano in corridoio a cercare di convincerla del passo indietro. Un semi golpe, quindi. Un colpo di mano per chiudere una battaglia che stava andando troppo per le lunghe. S’è difesa come un leone, Rosi la nera. Poi Maroni ha tagliato la testa al toro: «O si dimette lei o mi dimetto io...». È il picco del dramma. Che fare? Il duello è finito in quel momento. Salvare la Mauro al prezzo di perdere Bobo? No, troppo. È stato scontro duro, lungo, disperato. E qualcuno ci legge anche una debolezza di Bobo se, per sciogliere il nodo, addirittura il segretario del partito di fatto, ha dovuto mettere sul tavolo la sua di testa. Ma tant’è. Alla fine Rosi la «terrona» ha capitolato. Decapitata. Ma prima che la ghigliottina cadesse sul suo collo, la Mauro ha lottato con i denti. Poi lo sfogo: «La mia è un’epurazione già scritta. Ha prevalso il rancore sulla verità». Sul suo futuro come vicepresidente del Senato, invece ha glissato: «Vediamo, una cosa alla volta, domani è un altro giorno».
Ci ha pensato per un po’, Rosi: starsene a Roma, nel suo ufficio di palazzo Madama; o andare su, a Milano, in via Bellerio, a dire la sua, in faccia a tutti i gerarchi leghisti? Seconda opzione: si combatte. Prende l’aereo accompagnata proprio da Pier Moscagiuro, poliziotto e sua guardia del corpo, anche lui nel mirino. Varca la soglia di via Bellerio a piedi, la Mauro, ostentando un’imperturbabilità, forse di facciata. Vuole partecipare al suo processo dal vivo e, ovviamente, vendere cara la pelle. Continua a ripetere che «no, non ho preso un soldo dalle casse dal partito e riuscirò a dimostrarlo». Quindi, «non mi dimetto. Nemmeno dalla vicepresidenza del Senato». Eppure davanti a sé ha tutti vertici del Carroccio che le chiedono il passo indietro: «Fallo per il bene del partito, fai un atto d’amore...». Persino Bossi le dice: «Rosi, se lasci la vicepresidenza del Senato ti tengo nel partito». Ma lei non molla, non vuole mollare. Qualcuno dice: «Voleva farsi sbattere fuori, è chiaro». Si sente innocente e non vuole esser condannata in un processo che ritiene esclusivamente «politico». Sa, Rosi, di essere al centro della canea: lei la volpe, inseguita da una muta di cani assetati di sangue. Del suo. Ma lei non ci sta. Urla, sbatte i pugni sul tavolo. Come fa di solito, del resto. Motivo, questo, per cui l’Umberto l’ha sempre apprezzata. D’altronde, come ha raccontato Panorama, è la sua tempra che ha conquistato Bossi che di lei «rimase politicamente folgorato a Milano, quando la notò mentre arringava un gruppo di tranvieri: “Vidi una ragazzetta che urlava su un tavolo e li mise tutti a tacere”».
Rosi sbraita. Non vuole essere il capro espiatorio, non vuole pagare per tutti. «Il passo indietro non lo faccio, specie se me lo chiedete voi», chiaramente riferito a Maroni. Persino Bossi cerca di convincerla. Niente da fare. Rosi «disubbidisce». E proprio questo sarà l’appiglio che le sarà fatale. La Mauro viene cacciata dalla Lega perché, testuale, «preso atto della decisione della senatrice Mauro, il consiglio federale all’unanimità ha decretato l’espulsione dal movimento della stessa senatrice Mauro, ritenendo inaccettabile la sua scelta di non obbedire a un preciso ordine impartito dal presidente federale (Bossi) e dal consiglio federale».
Sola. Sola a difendersi, cercando di dire che lei non aveva fatto niente e non era neppure indagata, a differenza di altri... Chiaro riferimento a Davide Boni, collega di partito finito nelle grane per un presunto giro di mazzette. Solo che Boni, ex calderoliano poi seguace dei «barbari sognanti» di Maroni, da Bobo è stato difeso a spada tratta. Si sente sola, Rosi. Ma i rapporti di forza in un partito che sembra sempre più un covo di vipere la vedono perdente. Sconfitta. Il consiglio federale si scioglie e i leghisti se ne vanno in ordine sparso. Lei resta. Fa un passaggio da Umberto per il quale ha fatto per anni la «badante». Dirà: «No, non mi sento tradita da Umberto».

Poi anche Bossi se ne va e Rosi Mauro resta definitivamente sola. Con l’ultima macchia sul vestito: da quanto risulta alla Gdf, tra i pochi dipendenti del SinPa, che non sarebbero più di tre, uno di questi sarebbe proprio la nipote di Rosi.

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