L’intervento

Il termine immunità sta ritornando di moda. Merita quindi qualche approfondimento. Immunus, cioè assenza di un diritto o di un dovere. Per esempio, Cesare nel De bello gallico dice che i druidi, i sacerdoti celti, sono immunes cioè esentati dalle armi e dalla guerra. Ma l’immunitas è fattore fondamentale anche della fondazione di una communitas, condivisione di un diritto in una comunità che si basa su un sovrano, di diritto divino o umano.
È la ragione che concede un’immunità assoluta ai re dalla cui persona promana ogni ulteriore diritto.
E non è casuale che l’immunità venga sospesa dagli atti rivoluzionari che depongono le corone dalle teste come in Giacomo II Stewart nell’Inghilterra del ’600 o nelle ghigliottine giacobine che fanno deporre in un cesto la testa insieme alla corona di Luigi XVI Capeto.
Se il Parlamento repubblicano diventa l’unico depositario della sovranità fondamentale, non è così bizzarro che questo antico e fondante concetto applicato di filosofia del diritto transiti nei suoi membri.
Fu così infatti nella mitica e mitizzata costituzione marxista liberale, compromesso da cui scaturì l’Italia del Dopoguerra. Rimane così nelle prerogative dei parlamentari di un’Europa peraltro soltanto in costruzione.
Incomprensibile quindi tanto scandalo sulla ricostruzione di un accettabile grado di immunità che protegga gli eletti del popolo dalla totale supremazia di altri due poteri: uno antico e consolidato, quello giudiziario, autofondatosi come una sorta di casta braminica, sciolta da qualsiasi altro potere, visto che i giudici possono essere giudicati soltanto da altri giudici o da organismi collettivi in cui comunque i magistrati sono maggioranza; e da un altro dei nuovi poteri, oltre i tre di Montesquieu, come afferma Alain Touraine grande sociologo della gauche francese: il potere mediatico.
Fu dovuta infatti più ad un kombinat mediatico giudiziario la radicale decapitazione della classe politica democristiana e socialista nella prima Repubblica, piuttosto che a processi conclusi in verità spesso con molte assoluzioni o nulla di fatto.
È evidente quindi che se non si vogliono affidare integralmente a questa combinazione giornalistico-giudiziaria gli esiti di qualsiasi democrazia in una dimensione in cui gli avvisi che dovrebbero essere di garanzia spesso sono stati sufficienti per stroncare un eletto del popolo, occorre reinventare qualcosa.
Non un’impunità ingiusta e impopolare, che ricrei una nuova ulteriore casta di cui non si sente alcun bisogno, bensì uno scudo che non vanifichi le scelte del popolo unico e vero sovrano.
Ricordo da giovane dirigente della federazione giovanile comunista di Torino negli anni ’70, interessantissime riunioni che si svolgevano nei suggestivi sotterranei di Palazzo Carignano, sede del primo parlamento dell’Italia unita.
Presso quella famosa Unione Culturale di Torino presieduta prima da Franco Antonicelli, precettore liberal-progressista gobettiano-gramsciano dell’Avvocato Agnelli e poi dal grande Lucio Libertini dei Quaderni rossi, vi partecipavano insieme ad Ugo Spagnoli, grande avvocato comunista e poi giudice costituzionale, molti di quelli che sarebbero diventati i grandi leader storici di magistrature democratiche, e non solo.
In un tempo in cui le procure della Repubblica erano poco più che un commissariato di caccia ai rapinatori o ai terroristi e ancora c’erano giudici istruttori, si preconizzava la funzione fondamentale di una magistratura inquirente veramente democratica nel raddrizzare le ingiustizie del mondo.
Disse in una memorabile prolusione a un congresso di questa corrente illuminata dell’ordine giudiziario un suo famoso padre fondatore che la giustizia con la bilancia in mano non doveva essere cieca. Bensì mostrare due volti: uno sociale e comprensivo per chi dalla vita, dalla nascita e dalla classe sociale non aveva avuto nulla o poco. Uno duro e inflessibile con i colletti bianchi e i privilegiati dal destino e dalla sorte. In breve gli assessori sarebbero diventati molto più importanti e braccati dei rapinatori.
Insomma nella realizzazione del principio giacobino di giustizia più che di libertà e fraternità, palazzi che proprio così si chiamavano «di giustizia» avrebbero potuto più e meglio di qualsiasi soviet degli operai e dei soldati.
È una cultura che credo sia diffusa nel peggior sostanzialismo giuridico.

«Controllo di legalità» non significa anteporre sempre e comunque la mano che può scegliere quale faldone mettere in cima ad una pila di azioni penali tutte ugualmente obbligatorie e quale in fondo, alle migliaia di mani che depongono una scheda nell’urna per scegliere chi deciderà del loro futuro umano, famigliare, civile. Si tratta quindi di un passaggio storico decisivo.

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