L'addio al federalismo ha depresso il Nord

Con la Lega accucciata all'angolo tramonta un sogno che durava da vent'anni. Ora serve un miracolo

Roberto Maroni durante il congresso della Lega Nord
Roberto Maroni durante il congresso della Lega Nord

Al Carroccio ballano le ruote. Roberto Maroni ce la mette tutta per tenerlo in strada e finora ce l'ha fatta, in qualche modo. Ma il rischio di finire nel fosso, lungi dal diminuire, è addirittura aumentato. Dovunque si è votato, domenica e lunedì scorsi, i consensi padani sono dimagriti. Malattia terminale? Non ce lo auguriamo, perché se la Lega tira le cuoia non rimane più nessuno a occuparsi della questione Nord, che non è un'invenzione furba di Umberto Bossi prima maniera, ma un problema che pesa a livello nazionale.
Se la politica non si cura del Settentrione, va a ramengo anche il Sud e addio sogni di gloria nazionale. Speriamo quindi che i dirigenti delle camicie verdi si diano una mossa, smettano di litigare fra loro, si accordino e seguano una linea vincente. Procedere a zigzag, come avviene ora, porta allo sfascio. Lo si è visto nella recente tornata elettorale che ha sancito un fallimento. Non poteva essere diversamente. C'è la Lega di Maroni, c'è quella di Bossi, ci sono i nostalgici del cerchio magico, c'è la Lega tardodemocristiana e pragmatica del sindaco di Verona, Flavio Tosi, poi c'è quella tradizionalista di Giancarlo Gentilini, sconfitto a Treviso nella corsa al vertice del Comune cittadino, di cui fu sire incontrastato per due mandati. Troppa roba, troppa confusione.
Gli elettori hanno bisogno di pochi messaggi, ma molto chiari. Altrimenti vanno nel pallone e fuggono verso altri lidi, fuggono dai seggi, fuggono perfino da se stessi e rinnegano i propri ideali per una ragione banale: sono stati calpestati o sepolti sotto le macerie del partito, che pure sembrava imbattibile, costantemente in crescita. A parte gli scandaletti provocati dai rubagalline, che comunque hanno destabilizzato (anzi, nauseato) la base, il nodo principale è il federalismo. Sparito. Non se ne parla più. Ora, chiunque capisce che togliere il federalismo ad Alberto da Giussano è come tagliare le tette a Miss Italia: appeal azzerato.
I padani si erano illusi per anni e anni che la suddetta formula istituzionale fosse una panacea, un avvicinamento all'irrinunciabile secessione. Bossi ha brigato una vita per introdurre nel nostro sistema marcio i sani principi di Carlo Cattaneo. Quando finalmente sembrava avercela fatta, tutto è svanito. Era uno scherzo. Una delusione del genere non è facile da digerirsi. Il leghista medio sospetta addirittura di essere stato preso per i fondelli. E forse è proprio questa la verità. Infatti, i leader padani dovevano immaginare che un federalismo tosto non sarebbe mai passato. Figuriamoci: la metà del Parlamento è costituita da meridionali per nulla stupidi. Finché si trattava di approvare un federalismo all'acqua di rose, vabbè, potevano anche starci. Ma un federalismo vero, duro e puro, alla svizzera, avrebbe danneggiato il Sud, privandolo almeno all'inizio di risorse a pioggia. Quindi mai lo avrebbero approvato.
In effetti è andata così. Quando è venuto il momento di attuare la riforma, cioè di trasformare il progetto cartaceo in realtà amministrativa, i partiti della conservazione, insuperabili nell'arte sovrana di fare i finti tonti, hanno inondato le Camere di cloroformio: e il federalismo si è rifugiato in fondo a un cassetto, sepolto sotto una coltre di polvere.
I famosi decreti attuativi chi li ha visti? Ciò che, viceversa, ha resistito e resiste è la modifica del Titolo V della Costituzione, una schifezza voluta dalla sinistra per trasferire vari poteri dello Stato alle Regioni, con tanti saluti alla centralità del governo. Conseguenza: un quarantotto, una Repubblica del piffero. Dagli esordi della Lega romantica (versione primitiva, ma suggestiva) sono trascorsi più di trent'anni. Tempo buttato via. Scusate, che fiducia possono avere gli elettori nel nuovo corso di Maroni? Al quale auguriamo successi strepitosi perché siamo sentimentali e ci addolora assistere all'agonia del movimento. Ma il pasticcio che si è creato è talmente grosso da uccidere nella culla il nostro infantile ottimismo. Il popolo del Nord è depresso. Servirebbe un miracolo, ma persino a padre Pio, che poi era terrone, riuscirebbe difficile.
Che desolazione. I risultati elettorali emersi dalle urne lunedì fanno quasi pena, come fa pena constatare che la Lega si è accucciata in un angolo, incapace di reagire alle intemperie politiche che stravolgono, ogni dì, un Paese già stordito dalla decrescita economica, dalla disoccupazione e da un fisco sadico. Altro che ripresa, altro che rinascita. La Lega è troppo ammaccata anche per infondere un po' di speranza al centrodestra patrio: non è in grado di fornire un contributo alla riscossa berlusconiana.
Riconosciamo al successore del Senatùr di essersi inventato qualche slogan sostitutivo di quelli bossiani, che alcuni anni fa erano molto efficaci per quanto terra terra. Dal cilindro maroniano è uscito un fil di voce che diceva: «Prima il Nord». Sai che brivido. Un'altra trovata: «La macroregione». Che è un'intuizione intrisa di intelligenza, ma non scuote nemmeno una foglia. Certe sottigliezze da politologi sono buone per i convegni, non per infiammare le piazze e riempire le urne.
La Lega comatosa è una spina nel mio cuore di pietra orobica. Sento che è destinata a farmi male per sempre.

segue a pagina 6

Bracalini a pagina 6

di Vittorio Feltri

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