Ieri l'università di Messina ha avuto di nuovo a che fare con le forze dell'ordine. I due docenti arrestati dalla Guardia di Finanza nell'operazione «Pacta servanda sunt» sono il direttore del dipartimento di Farmacia dell'ateneo, Giuseppe Bisignano, e il professore ordinario di Microbiologia e Microbiologia Clinica, Giuseppe Teti. L'accusa? Avrebbero inquinato un concorso per ricercatore in Microbiologia e Microbiologia Chimica per far vincere il figlio di Bisignano. Quindi per dirla in legalese i reati ipotizzati sono: peculato, concussione, abuso d'ufficio e falso. Indagate anche altre 5 persone tra cui l'ex rettore Francesco Tomasello, la sua delegata per comporre la commissione Maria Chiara Aversa, un docente di Camerino Sandro Ripa, uno professore di Catania Giuseppe Nicoletti, il gestore dell'economato del dipartimento di Farmacia Cesare Grillo. Tomasello avrebbe favorito con Aversa la formazione della commissione per favorire il figlio di Bisignano. Nicoletti, Ripa e Bisignano avrebbero influenzato la commissione della quale ha fatto parte Teti.
Uno dei tanti episodi di mala università così tipici in Italia? Beh non solo.
I casi in cui le forze dell'ordine hanno dovuto intervenire nell'ateneo messinese sono troppi. Uno stillicidio che dura dalla fine degli anni '90. Insomma esiste un'anomalia messinese che non si può ignorare, una di quelle anomalie che può facilmente trasformarsi in un titolo di cronaca sull' «Università del crimine». Tutto iniziò 17 ottobre del 2000 con l'operazione «Panta rei», scattata in seguito alle prime indagini sull'omicidio del professor Matteo Bottari. Un vero blitz in grande stile che rivelò quanto le mani della criminalità (per gli inquirenti si trattava della 'ndrangheta) fossero vicine ai gangli vitali dell'Università (che per inciso è anche la principale «industria» di Messina). Ci furono 37 mandati di cattura e 70 indagati tra cui molti illustri docenti. Il processo si è trascinato per anni alla fine a giugno 2013, dopo un passaggio in cassazione che ha escluso il reato di stampo mafioso, è arrivata la sentenza della Corte d'appello di Reggio Calabria. Secondo la corte, in un contesto di criminalità organizzata, sono indubbie le carriere accademiche «accelerate» da intimidazioni con l'uso delle armi (qualche quotidiano parlò di lezioni a canne mozze), ma anche le lauree comprate e vendute e, sullo sfondo, il traffico di droga. Certo le condanne risultano sicuramente inferiori a quello che ci si poteva aspettare dall'impianto accusatorio (anche per le molte prescrizioni), ma il contesto emerso resta inquietante.
E questa è soltanto una delle inchieste in cui è stata coinvolta l'università. Nel 2004 scoppio il caso del professor Elio Fanara. Docente di diritto della navigazione nella facoltà di Giurisprudenza venne sospeso cautelativamente dal servizio e posto agli arresti domiciliari con le accuse di tentata concussione a fini sessuali, violenza sessuale e violenza privata dopo le testimonianze rese da nove sue studentesse. Il professore si uccise gettandosi dalla finestra il giugno di quell'anno. Queste le sue ultime parole vergate in un messaggio: «Preferisco affidarmi alla giustizia di Dio, vado nell'aldilà e continuerò la mia battaglia da lì... Scusatemi se mi uccido, ma consentitemi di farlo perché non ce la faccio più». E anche in quel caso non mancarono veleni, strascichi. Cose che mal si sposano con i volumi in memoria del professor Fanara che ciclicamente l'università promuove.
Ma è una storia infinita, tralasciando le vicende minori, nel luglio di quest anno c'è stata l'operazione «Campus». Di nuovo minacce, estorsioni, prove d'ammissione truccate. Per un totale di sei arresti. E di nuovo si è tornati a parlare di 'ndrangheta e sono rispuntati anche nomi che erano già comparsi nell'inchiesta «Panta rei». Perché purtroppo nell'Università di Messina, alla faccia di Eraclito, tutto scorre ma tutto sembra restare uguale.
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