Quando ieri, 12 minuti dopo le 11, è arrivata la notizia che lo Stato avrebbe messo in vendita il 49% di Terna, sul mercato c'è stato un attimo di sbandamento. Eppure a dare l'annuncio era stato nientemeno che il premier Enrico Letta, in un'intervista rilasciata negli Usa a Lally Weymouth del Washington Post, già leggibile on line. Sbandamento seguito da un'ondata di vendite: in un mercato positivo il titolo Terna (una delle 40 maggiori società quotate a Milano) ha ceduto in pochi minuti quasi il 3%: dai 3,556 euro delle 11:15, ai 3,456 delle 11:50. Lo sconcerto era dovuto a un fatto banale: lo Stato non può vendere il 49% di Terna. Per il semplice motivo che non ce l'ha.
Terna è la società che gestisce la rete di trasmissione nazionale elettrica, con oltre 63.500 chilometri di linee in alta tensione. Primo operatore indipendente in Europa e sesto al mondo. Letta non può venderla perché l'hanno già venduta una volta i suoi predecessori: il 70% è infatti sul mercato. Ma anche il restante 30% non è più in mani pubbliche, ceduto alla Cassa depositi e prestiti. Che, a sua volta, è una spa controllata sì dal Tesoro all'80%, ma con il restante 20% in mano alle Fondazioni. Letta però ha detto proprio così: annunciando un taglio della pressione fiscale dal 44,3 al 43,3%, alla giornalista sbigottita che gli chiedeva dove avrebbe trovato le risorse miliardarie necessarie, ha risposto: «Dalle privatizzazioni. Fincantieri, per esempio. E poi venderemo una parte di Terna, naturalmente non il 100%, ma il 49». (Per inciso, anche Fincantieri è di Cassa Depositi).
Insomma, vuoi per la presenza dell'americana e dell'italiano, vuoi perché questi cerca di vendere qualcosa che è già stato venduto o che non è suo, il clima ha ricordato subito quello di «Totòtruffa 62». Peccato però che, per qualcuno, lo scivolone di Terna è costato caro: quel -3% equivale a una perdita di valore di oltre 200 milioni. È vero che dopo il titolo ha recuperato. Ma il rischio che qualcuno sia rimasto preso dentro è alto.
Dovendo escludere l'intento comico di una sceneggiatura di Castellano e Pipolo, Letta ha sbagliato almeno tre volte. La prima sull'entità del 49%, non a caso corretta poco dopo (12:56) da Palazzo Chigi in 4,9%. Una toppa peggio del buco: mettere una virgola era la cosa più semplice, ma che senso aveva? Il 4,9% di Terna vale 340 milioni, che se ne fa Letta? Va annunciato al Washington Post? E in ogni caso, ecco il secondo errore, non sarebbero dello Stato. Certo, la moral suasion del governo su una controllata è forte. Ma anche ammesso che Cassa vendesse il 4,9%, o ipotizzando la cessione dell'intero 30%, che cambiava? Il ricavato in nessun caso avrebbe fatto parte del perimetro del bilancio dello Stato o del debito pubblico. Salvo non ipotecare, a carico di una spa con azionisti terzi, la distribuzione di un superdividendo. Ma qui ci sarebbe il terzo errore: il Letta che venderebbe la rete elettrica è lo stesso che difende le infrastrutture strategiche e che si oppone alla cessione di quella telefonica? Allora la spiegazione può essere una sola: il primo ministro non sa o non ricorda che Terna è privata; e parlando al Post del 49% intendeva annunciare la cessione sul mercato di una quota di minoranza, credendo che allo Stato sarebbe rimasto il 51%. Tutto quello che ne è seguito (rettifiche, precisazioni) è stato un tentativo, un po' goffo, di rimediare. Sarebbe stato più semplice (e umano) ammettere l'errore.
Dopodiché non occorre essere di parte (il 37% del Giornale appartiene alla Mondadori, controllata da Fininvest, e il restante a Paolo Berlusconi) per chiedersi cosa sarebbe successo se una tale gaffe l'avesse, per avventura, fatta il Cavaliere, quando era premier: discredito internazionale assicurato, come minimo. Oltre a grossi sospetti sulle dichiarazioni rilasciate nell'intervista, seriamente manipolative del mercato azionario. Roba da mettere in allarme più di una procura.
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