Roma - Sono in cinquemila, forse seimila. Pochi? Tanti? Chissà: la rivoluzione non è un pranzo di gala e non è nemmeno una questione di numeri. E poi, come dice qualcuno dal palco di piazza del Popolo, «molti non li hanno fatti arrivare e molti non hanno nemmeno i soldi per il biglietto». Insomma, per il comitato 9 dicembre, componente dei Forconi, non è un flop. E come dice un signore barbuto che la sa lunga, «contiamo sul governo Letta-Alfano. Alzeranno le tasse ancora e l'anno prossimo anche quelli che sono rimasti a casa saranno qui con noi». E poi è solo l'inizio: «Andremo avanti a oltranza con i presìdi che già ci sono e si moltiplicheranno in tutta Italia fin quando questa classe politica non se ne andrà», annuncia il leader dell'ala dissidente del coordinamento 9 dicembre, Danilo Calvani. È una piazza nuova, quella che fa le prove tecniche di rivolta. Sembra una di quelle squadre di calcio messe insieme in tutta fretta d'estate da un direttore sportivo spericolato, la Dinamo Forconi: magari il talento c'è ma il meno è che alle prime partite manchi l'amalgama. Qualcuno fischia quando il vicino inneggia. Qualcuno contraddice in diretta chi sta rilasciando un'intervista perché secondo lui non va al dunque. Insomma, il copione va studiato meglio. Ma in fondo è un segno di autenticità: qui non c'è gente arrivata con il pullman pagato dal sindacato e panino-bibita-caffè inclusi. Qui se vuoi fare rumore il fischietto te lo vende il pakistano a un euro, il tricolore da sbandierare tre. Le anime si mescolano a fatica, talora si guardano con diffidenza. Per dire, quelli di CasaPound fanno i bravi, ma per fare un po' le star arrivano dopo e sfilano in corteo silenziosi e lugubri, sfiorando quello che da ore mostra la gigantografia di Malcom X. Mettiamo ordine, dunque. Parole che scaldano la folla: popolo (evergreen), Italia, Francesco (in quanto papa), Falcone&Borsellino. Poi c'è il motto più scandito: tutti-a-casa. Quando qualcuno parte tutti lo seguono entusiasti. L'inno di Mameli piace ma non c'è niente da fare: poi ti guardi in giro cercando il maxischermo con la partita dei mondiali. Bordate di fischi per, in ordine sparso: Giorgio Napolitano («Dovrebbe essere il padre di tutti, per me non è né uno zio né un cugino, e nemmeno un vicino di casa», analizza Daniele in giubbotto Harley Davidson), Angela Merkel, i politici («tutti abusivi»), le banche, l'euro (c'è pure il nostalgico della lira: «Valevi la metà ma duravi il doppio»), la tv, i giornalisti. Ecco, i giornalisti. La piazza senza malizia mette in scena una patente contraddizione. Sul palco si grida ai cronisti «di merda» come «venduti, servi, imbroglioni». Pochi metri sotto, sui sanpietrini, si fa a gara a dire la propria davanti a un taccuino, a un microfono, a una telecamera. Anche se i più avveduti rifiutano: «Tanto poi montate e mi fate dire quel che volete». Così i pensieri si esprimono attraverso i tanti cartelli per lo più homemade: «Studenti, braccianti, operai... Il sole non sorge a Bruxelles», scolpiscono quelli di CasaPound. Un signore indossa un casco da cantiere giallo su cui ha scritto: elmo di Scipio. E poi: «Italiano spegni la tv, accendi il cervello». «Non ho paura della repressione dello Stato, ho paura del silenzio del mio popolo». «Quarant'anni fa si parlava di compromesso storico, oggi siamo davanti al tradimento storico». «Sì alla sovranità monetaria». «Non mi suicido, combatto». «Avete ridotto il popolo italiano alla fame!! Vergognatevi!! Parassiti corrotti!!». «Non chiamateli politici ma criminali». «Ladri papponi fuori dai coglioni».
Ecco, la naïveté della piazza dei forconi passa anche dallo spregiudicato uso di parolacce sul palco, dove si alternano i delegati del movimento ognuno con le sue storie: c'è lo studente che vuole essere certo che alla laurea potrà trovare lavoro, c'è l'imprenditore che vorrebbe assumere ma il suo commercialista gli dà del pazzo, c'è il papà che ha chiesto alla figlia laureata e poliglotta di rinunciare al progetto di andare in Norvegia per restare a lottare qui.
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