
Almeno un merito va riconosciuto a Matteo Renzi: la cocciutaggine. Straniero in casa propria, alieno nel partito che vorrebbe guidare, il sindaco di Firenze sta tentando per la seconda volta di scalare il Pd attraverso la via ferrata delle primarie, e per la seconda volta deve prendere atto che il corpaccione democratico non lo vuole. Renzi è testardo e tira dritto, ma se anche dovesse riuscirgli l'impresa di espugnare il fortino rosso, per lui il peggio dovrà ancora venire.
Ieri gli è arrivata la scomunica di Eugenio Scalfari. «Meglio un libro di Fabio Volo che un voto a Matteo Renzi», ha vaticinato l'oracolo di Repubblica (giornale che pure non gli è ostile) il quale giudica il rottamatore un «avventuriero». Nel partito democratico cresce il fronte di chi ne prende le distanze. La sinistra più dura non digerisce le sue sparate populiste sui tagli alle «pensioni d'oro» e soprattutto a quelle di reversibilità. Gli ex democristiani (come lui) non perdonano a Renzi l'aperta ostilità nei confronti di Enrico Letta. L'elenco di frecciate e sgambetti è lungo, l'ultimo riguarda le telefonate pro-Ligresti del Guardasigilli Annamaria Cancellieri, che per Renzi doveva dimettersi.
Con il giovane sindaco il Pd usa il bastone e la carota. Blandire e menare, esaltare e reprimere. Un anno fa, quando alla segreteria c'era Pier Luigi Bersani, molti salutarono Renzi come una figura provvidenziale, l'unico nel centrosinistra capace di rubare voti al centrodestra con il suo linguaggio che mescola autopromozione e solidarismo, spruzzate di riformismo e scenografie a uso televisivo. All'assemblea nazionale dello scorso maggio gli è stato concesso di intervenire anche se non ne faceva parte. Quando però Renzi divenne una minaccia seria per l'uomo dell'apparato, ebbe la corsa alla segreteria bloccata dal totem della sinistra: le regole. Non si poteva far votare tutti, bisognava essere iscritti da tempo, guai se qualche simpatizzante dell'ultima ora avesse voluto portare il suo contributo di partecipazione. Oggi si è tutto capovolto. Pur di contrastare il rottamatore i signori delle tessere democratiche scaricano nelle sezioni del partito comitive di albanesi e romeni, regalano soldi per iscriversi, e assieme ai tre biglietti da cinque euro mettono nelle mani dei nuovi adepti anche un foglietto con il nome del candidato da votare.
Le porte un tempo sprangate si sono improvvisamente spalancate a chiunque, pur di frenare la cavalcata renziana. Un anno fa, con Bersani, nessuno osava mettere in discussione che il segretario eletto dalle primarie sarebbe stato anche il candidato premier. Nulla doveva turbare la strada tutta in discesa dello smacchiatore di giaguari dalle Botteghine Oscure a Palazzo Chigi. Anche qui, oggi nel Partito democratico le decisioni sono state capovolte in senso anti-renziano. «Non può fare il segretario come secondo lavoro», dice Gianni Cuperlo. «Si candida a premier non solo chi vince le primarie», aggiunge Guglielmo Epifani, segretario-cireneo. Insomma, il ragazzo di Firenze si accontenti di prendere in mano il partito devastato dalle polemiche sul tesseramento; il governo è tutt'altra faccenda.
Comunque la si giri, Renzi resta un alieno nel Partito democratico. Una batteria di «fuoco amico» è sempre pronta a cannoneggiarlo.