Il ministro degli Esteri, Giulio Terzi, ha lasciato volontariamente l'incarico governativo. Il motivo è facile da indovinare: la vicenda ingarbugliata dei marò, prima trattenuti in Italia, poi rispediti in fretta in India che pretende di processarli per omicidio. Il caso è talmente noto da non richiedere di essere riassunto. Certo fa specie che il responsabile di un dicastero si dimetta da un esecutivo già dimissionario e in attesa di smobilitare per far posto a quello nuovo.
Il gesto di Terzi è apprezzabile sotto il profilo dello stile, ma non era necessario per due motivi. Primo, le decisioni del Consiglio dei ministri sono sempre collegiali; secondo, il pasticcio dei militari sballottati tra l'India e l'Italia non è stato provocato soltanto dalla Farnesina: tutti, ma proprio tutti, hanno contribuito a ingigantirlo.
Cerchiamo di spiegare. Le indagini svolte dalle autorità del Kerala sono piene di buchi. Il più vistoso riguarda i proiettili: quelli recuperati con l'autopsia sono calibro 7 e 62, incompatibili con i fucili Beretta in dotazione ai marò. Sarebbe bastato questo dato fondamentale per scagionare Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Invece, i soloni di casa nostra non hanno aperto becco quando sarebbe stato opportuno sollevare un polverone polemico.
Inoltre, la sera dell'incidente, nella stessa zona in cui si trovava la nave italiana, c'era una petroliera greca che denunciò di aver subìto un attacco piratesco. E anche questo dettaglio non è stato enfatizzato; non si comprende perché. Ma ciò che più stupisce è il comportamento dell'autorità giudiziaria del nostro Paese. Quando lo scorso Natale, dopo un negoziato diplomatico, i militari rimpatriarono per una breve vacanza, qui sarebbero dovuti rimanere ed essere sottoposti a un'inchiesta della magistratura. La quale, essendo indipendente esattamente come quella indiana, avrebbe avuto facoltà di arrestarli, interrogarli ed eventualmente rinviarli a giudizio. Infatti, l'azione penale è obbligatoria. Per cui, avuta notizia di un reato, addirittura omicidio, la Procura della Repubblica sarebbe stata tenuta ad agire secondo la legge, magari richiedendo per rogatoria la documentazione ai colleghi del Kerala.
Qualora l'India avesse reclamato, il nostro governo avrebbe avuto una risposta pronta e incontestabile: la giustizia italiana è autonoma, un potere non dipendente dall'esecutivo, e ha il diritto di giudicare cittadini che siano sospettati di avere violato i codici. Ovvio, sarebbe scoppiata una controversia internazionale; sempre meglio di una figura di palta. L'impressione che abbiamo ricavato fin dall'inizio da questa storia è stata molto brutta: un totale disinteresse per la sorte dei marò da parte di chi, viceversa, aveva l'obbligo di farsi in quattro per riportarli a casa. Non si trattava di due mercenari assoldati da un armatore, ma di due militari comandati di difendere un piroscafo dai pirati.
Non tutelare le Forze Armate è sintomo di scarso senso dello Stato, che non è rappresentato solamente dal ministro degli Esteri, ma da tutti i poteri dello Stato stesso. Ecco perché le dimissioni di Giulio Terzi, per quanto rivelino un nobile intento, sono insufficienti a chiudere la questione, peraltro destinata ad avere un seguito e un esito poco piacevoli. Non è una novità, almeno per noi, che il gabinetto tecnico di Mario Monti sia stato tra i peggiori della Repubblica, mai tuttavia avremmo immaginato una conclusione tanto ingloriosa della sua esperienza alla guida del Paese.
Il capo della Farnesina ieri è stato travolto dalle critiche per avere sbattuto la porta senza preavvertire il premier e il Quirinale. Si è «licenziato» in aula, cogliendo i parlamentari alla sprovvista. Il ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola, prendendo la parola dopo di lui, ha detto che, a differenza del collega, non abbandona la nave. Forse, però, è preferibile abbandonare la nave che i militari.
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