MilanoLa sintesi perfetta sul caso Dolce & Gabbana la dà uno studente di comunicazione. Passa di fronte alla boutique chiusa di corso Venezia, legge allibito l'articolo del Giornale affisso in gigantografia sulle vetrine e commenta: «Anche Valentino Rossi ha avuto guai con il fisco. Non per questo abbiamo smesso da fare il tifo per lui. Quindi non vedo perché negare le passerelle in Duomo a Dolce & Gabbana».
Milano resta senza parole di fronte alla decisione della griffe di indire uno «sciopero per indignazione» di tre giorni. Non si era mai vista una mossa del genere. Ma Dolce & Gabbana, si sa, moderati e tradizionalisti non sono.
«Li capisco - commenta una passante - è una vergogna affossare un'azienda che funziona». Maurizia, elegante signora milanese, se la prende con il sindaco Giuliano Pisapia: «Sarà pure avvocato, ma non si metta a fare il giustiziere al posto della corte d'Appello. In un momento del genere è importante sostenere le imprese che ancora funzionano e, soprattutto, difendere la loro immagine nel mondo». Claudio, ventiquattrore sotto braccio, avrebbe gradito un po' di cautela nei giudizi del Comune: «Prima di definire Dolce & Gabbana due evasori fiscali si aspetti la sentenza definitiva. L'Italia non è un Paese garantista?».
Dal canto loro, i due stilisti esplodono: sono stufi di portarsi sul groppone il peso di una condanna formulata solo in primo grado ma considerata definitiva dalla squadra di Pisapia (e non solo). «Non siamo più disposti a subire ingiustamente le accuse della Guardia di Finanza e dell'Agenzia delle entrate, gli attacchi di pubblici ministeri e la gogna mediatica» scrivono in una nota. Da qui la decisione di non aprire per tre giorni né le boutique del Quadrilatero della moda né il loro locale, il Gold (perdendo tutto il fatturato del fine settimana che precede le partenze). Tuttavia durante «la chiusura per indignazione» verranno comunque pagati i 250 dipendenti dell'azienda. E se proprio il Comune ragiona solo dal punto di vista fiscale, allora ecco i numeri: nel 2005, prima che cominciassero i problemi con il fisco, i due stilisti pagarono circa 12,7 milioni di euro di tasse a testa su un reddito di 29,7 milioni di euro ciascuno. «Negli ultimi 30 anni - scrivono - abbiamo dato tanto a Milano: prestigio e visibilità internazionale, posti di lavoro e sviluppo. Ora siamo stanchi delle continue diffamazioni e ingiurie». Milano nel 2009 li aveva ringraziati con l'Ambrogino d'oro. Adesso il Comune vuole che il riconoscimento venga restituito. A questo punto «lo ridiamo molto volentieri» scrive Gabbana su Twitter. A chi vuole anticipare a tutti i costi la sentenza di condanna a D&G, rispondono i legali dell'azienda: «L'accusa nei confronti di Dolce e Gabbana - sostengono - è di non aver pagato tasse su redditi mai percepiti. Incredibile, ma vero: erano stati accusati di dichiarazione infedele dei redditi per aver fedelmente annotato «solo» il corrispettivo percepito e non quello (miliardario, secondo la fantascientifica ipotesi dell'Agenzia delle Entrate) che avrebbero teoricamente potuto percepire».
Il caso solleva una questione estesa a più stilisti: quella degli spazi pubblici per organizzare eventi e sfilate. A Dolce & Gabbana sono stati negati, ad altri concessi ma con una tassa per l'occupazione del suolo pubblico stratosferica (450mila euro). È il caso di John Richmond, che insorge: «Mi associo a Dolce e Gabbana, io avrei fatto di peggio - ammette il titolare Saverio Moschillo - Dovrebbero fare una statua a chi lavora nella moda, non creare problemi». Mentre il Comune chiude le porte in faccia alla maison, la Regione apre le sue.
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