Essere o non essere. Per capire come intravede il suo futuro Mario Monti dovete immaginarlo come un attore shakespeariano in loden. Con Amleto in questo momento condivide due sentimenti: i dubbi e il desiderio di vendetta. Le dimissioni da premier svelano e completano la metamorfosi dell'ex rettore della Bocconi. Non sarà mai più un tecnico e ora deve invece indossare un abito da politico. Questo lavoro di sartoria non è così facile come sembra. Non perché a Monti manchi la volontà, ma perché fatica a trovare la stoffa giusta, cioè la coalizione e la base elettorale che dovrebbe sostenerlo, e anche il sarto, visto che Napolitano non può fare il suo tutore a vita. Qui c'è tutto il senso e l'ansia del suo dilemma. Adesso che l'uomo dei mercati e delle banche ha le mani libere si trova davanti una domanda a cui solo lui può dare una risposta. Che fare?
I suoi sponsor, italiani e stranieri, fanno pressing. Lo vogliono di nuovo a Palazzo Chigi. «Solo tu puoi salvare l'Europa e l'euro da una campagna elettorale populista». Mario al governo ci tornerebbe volentieri. Non solo perché si è affezionato alla poltrona, ma perché qualcosa dovrà pur fare, visto che la carica da senatore a vita gli evoca immediatamente l'immagine del pensionato. Ci sarebbe il Quirinale. Bella idea. Lo stesso Napolitano non lo vedrebbe male come suo successore. Si sa che i governi passano in fretta, mentre i presidenti della Repubblica stanno lì sette anni. «Mario - gli dicono - guarda che il capo dello Stato non è più solo un passacarte. È un deus ex machina, un arbitro che quando vede la palla si gira e la butta dentro. A Washington, a Berlino, a Wall Street si fiderebbero di te. Saresti la faccia austera di un governo ballerino». Monti, raccontano quelli che in questi giorni ci parlano e ascoltano i suoi dubbi, li guarda, scuote la testa e vede davanti solo soluzioni con il fiato corto. Monti, dicono, non si fida delle promesse che gli arrivano da sinistra e dall'alto. «Adesso mi vedono al Quirinale, ma poi quando si tratta di votare spuntano vecchi pagherò da onorare». Pure Prodi sogna il Quirinale. Le ambizioni di D'Alema sono sempre in salita. Poi magari qualcuno comincia a dire che ci vorrebbe una donna e allora vai con la Cancellieri e perfino con la Bindi. No, obiettivamente Monti sa che le promesse sul Quirinale sono scritte sull'acqua. Non si fida. E poi bisogna essere onesti, ma è davvero il Colle il futuro migliore? Chi ha il privilegio di ascoltarlo racconta questo: «Non gli va di diventare il notaio di decisioni che non gradisce». La scena è facile da immaginare. Quando il governo Bersani-Vendola comincia a smantellare giorno dopo giorno tutta l'agenda Monti, mandando al macero quei quattro stracci di riforme del governo tecnico toccherà a lui, novello presidente, metterci sotto la firma. Bel paradosso. Monti che controfirma lo smantellamento di Monti. Non ci fa una bella figura.
Allora che fa, si candida? Mica facile. Ci vorrebbe un solido e austero «partito del loden». Invece quello che Monti ha davanti è un piatto di frattaglie o un terreno arido dove non crescono voti. Immaginiamo che tutti i delusi da Berlusconi si guardino intorno in cerca di speranza e vedono Fini, Casini e Montezemolo. Nessuno dei tre, per motivi diversi, li convince. Se va bene quanto fatturano? L'otto o il dieci per cento? Ci sarebbe certo l'effetto Monti. Ma anche qui bisogna vedere quanto vale. Il capo del governo dei tecnici andrebbe alle elezioni con gli italiani che hanno appena finito di pagare l'Imu, vedono la tredicesima passare e andare via trucidata dalle tasse, si sentono ogni giorno che passa sempre più poveri, i figli non hanno lavoro, l'azienda di famiglia si inabissa tra debiti e protesti, le banche gli ricordano in ogni momento che Monti è l'uomo delle banche e a gennaio, cioè a un passo dal voto, i più fortunati hanno saldato le spese di Natale pagate con la carta di credito. Il partito del loden sembra quasi uno scherzo di Carnevale.
L'alternativa è limitarsi a fare il padre nobile di un centro risicato, che lavora per Bersani come mangiavoti di Berlusconi e dopo le elezioni si siede da poverello al tavolo del nuovo governo. A quel punto Monti riceverebbe in omaggio una poltrona da ministro dell'Economia, magari con Fassina come guardiaspalle.
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