Non provate a toccare le rendite

Pareva che Matteo Renzi portasse nella sinistra post comunista e post cattocomunista un vento nuovo. Ma ci sono pessime notizie sul fronte delle tasse sul risparmio. Dopo aver tartassato il mercato immobiliare tramite i governi Monti e Letta, ora Renzi ha in programma di tartassare le rendite finanziarie, con un aumento al 28% del tributo, che già negli anni di Monti è stato aumentato dal 12,5 al 20%. La notizia circola sui giornali. Susanna Camusso, capo della Cgil, invoca il rincaro, che piace a Davide Serra, fondatore del fondo Algebris, che sta a Londra, ma è consulente di Renzi. L'attendibilità della notizia è rafforzata dalla presa (...)

(...) di posizione di alcuni giovani esperti economisti del neo incaricato premier. La tesi che esprimono è la seguente. Se un lavoratore dipendente guadagna 30mila euro all'anno e ha la famiglia a carico non è benestante. Non si possono aumentare le sue imposte, bisogna ridurle. Ma se ha 30mila euro da parte può anche pagarci sopra un aumento di imposte. Se poi ha 10mila euro annui di rendite è decisamente «ricco», mentre chi ha solo 10mila euro annui di reddito da lavoro è un poveretto. Una tesi sbagliata e gemella di quella che è servita per sostituire l'Imu all'Ici, aggiungendoci la Tasi. Dove vuole andare a parare l'esperto economico di Renzi che fa questo ragionamento? Aumentiamo di 8 punti la cedolare secca sulle rendite finanziarie e riduciamo l'imposta sul reddito dei lavoratori dipendenti a minor introito. La prima osservazione da fare è che «piove sul bagnato». Alla fine del 2011 c'è stato un aumento sulle rendite finanziarie di 7,5 punti e ora ce ne sarebbe un altro di 8, con un incremento mostruoso di 15,5 punti, pari al 124% in più, in tre anni! La seconda osservazione è che questo aumento, gabellato come equo, è quanto mai discriminatorio: infatti non graverebbe su tutte le rendite finanziarie, ma solo su quelle diverse dai proventi dei titoli pubblici. La terza osservazione è che il prelievo darebbe un nuovo gettito di soli 2,5 miliardi, una cifra modesta - lo 0,16 del Pil -, inadeguata per finanziare una riduzione dell'Irpef, che rende al fisco 190 miliardi, ma molto gravosa per i risparmiatori che la pagano: una categoria ristretta di persone fisiche che comprano azioni, obbligazioni o depositano il denaro in libretti di risparmio e conti correnti. Non solo non pagherebbero questo tributo i titoli del debito pubblico al 12,5%, come prima di Monti, ma ne sarebbero esonerati anche tutti i percettori di redditi di pacchetti azionari pari o eccedenti il 2% del capitale di singole società, considerati partecipazioni qualificate, e tutti i proventi finanziari delle società di capitali, tassati al 28%, ma che fruiscono di detrazioni di spese e perdite di vario genere.
C'è poi la considerazione principale in termini di equità. Chi fa sacrifici nel suo bilancio per risparmiare onde provvedere a futuri bisogni - come quelli di figli che studiano, in periodo di mancanza di lavoro, di comprarsi l'alloggio per non accendere un mutuo troppo grande - non è forse meritevole di considerazione? L'equità consiste solo nello stato di bisogno - che può derivare anche da imprevidenza e da poca voglia di faticare - o consiste anche nel merito, derivante dal fare sacrifici per sé, per la famiglia, per la comunità? Non voglio arrivare alla teoria di Einaudi, che sostiene che tassare il reddito mandato a risparmio e poi il reddito derivante dal risparmio è una doppia tassazione, ma almeno si creda alla teoria secondo cui il risparmio è necessario per l'investimento, e questo è necessario per la crescita economica.

Che senso ha oberare i risparmiatori in una nazione piena di debito pubblico? Se questo è il programma di Renzi vuol dire che il lupo perde il pelo ma non il vizio. E Berlusconi non deve fidarsi troppo di questo lupetto che indossa panni da liberale perché frequenta i banchieri.

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