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Ora Renzi sente aria di urne e il governo inizia a tremare

Incoraggiato dai sondaggi il segretario vuole accelerare sulla legge elettorale e imporre un modello maggioritario con turno unico. Facendo infuriare Ncd

Ora Renzi sente aria di urne e il governo inizia a tremare

Roma - Finalmente, il congresso più lungo del mondo (in realtà dura dalle primarie del 2012, prima tappa della lunga marcia di Matteo Renzi) si è chiuso.

Ieri mattina Gianni Cuperlo ha ceduto al corteggiamento del neo-segretario, e soprattutto alle pressioni che venivano dalla sua area, ansiosa di salire a bordo del vascello renziano, e ha accettato di fare il presidente dell'assemblea Pd. Ruolo di per sé poco impegnativo (la sterminata assemblea viene riunita se va bene due volte l'anno) ma politicamente significativo, come dimostra il precedente Bindi. E che sancisce - come voleva Renzi - la pacificazione interna e il definitivo ricambio di classe dirigente del Pd: via i vecchi, largo ai giovani che si sono sì combattuti alle primarie, ma che condividono la voglia di «lavorare tutti insieme per un nuovo Pd», come dice un altro candidato delle primarie, Gianni Pittella. Lasciandosi alle spalle la vecchia guardia Pci-Dc.

D'altronde conviene a tutti allearsi con Renzi: i primi effetti del cambio di marcia già si manifestano in consenso sonante, sia pur virtuale: Swg segnalava ieri per il Pd un balzo avanti di sei punti in una settimana, dal 29,6% al 35,6%; e un centrosinistra oltre il 40%. Roba che non si vedeva da anni. E che spaventa molti, soprattutto dalle parti del governo. Dove sono in tanti a sospettare che quella forza propulsiva Renzi la voglia investire prima possibile, in barba al totem della «stabilità».

Tra il Pd di Renzi e l'esecutivo Letta-Alfano si è scatenata la competizione, una gara di sgambetti reciproci. Il brusco trasferimento dalla palude di Palazzo Madama a Montecitorio della legge elettorale ha fatto saltare i nervi al Ncd, che - dopo aver minacciato sfracelli e crisi di governo ad horas - accusa il sindaco di Firenze, per bocca di Gaetano Quagliariello, di non volere «alcuna vera riforma», ma di avere solo «la segreta tentazione di varare in fretta una leggina di correzione del Porcellum per precipitarsi a votare». La paura - fondata - è che, nonostante le rassicurazioni di Letta e di Napolitano, il leader del Pd non abbia alcuna intenzione di acconciarsi a estenuanti trattative con gli alfaniani, che hanno tutto l'interesse a tirare più in lungo possibile l'iter delle riforme per allontanare il voto (puntando a tenersi il sistema iper-proporzionale uscito dalla Consulta, l'unico che «ci salverebbe» come ha detto Alfano ai suoi), e sia pronto a forzare i confini della maggioranza per ottenere il famoso «sindaco d'Italia». Che, a sentire Maria Elena Boschi - renziana di ferro con delega alle Riforme - è «il maggioritario a turno unico in vigore nei Comuni sotto i 15mila abitanti, senza ballottaggio se non nei casi di parità assoluta». Sta di fatto che, all'assemblea Pd di domenica Matteo Renzi dirà (probabilmente davanti allo stesso Letta) parole molto chiare su riforme e legge elettorale, nonchè sui tempi celeri da rispettare. E sulla sua relazione chiederà il voto della platea, vincolando l'intero Pd a rispettarle e mettendo sul tavolo del governo il suo peso da azionista di maggioranza.

Difficile non vedere nella mossa a sorpresa di Letta ieri, il decreto per abolire (dal 2017) il finanziamento pubblico, un tentativo di sgambetto a Renzi: anticiparne le mosse (il sindaco aveva annunciato una «sorpresina» a Grillo sul finanziamento pubblico) per attribuirne il merito al governo. «Ma è chiaro a tutti che il merito è di Matteo, e che il governo fino a ieri ha dormito della grossa: se ora si sveglia e inizia a fare qualcosa, tanto di guadagnato per tutti», dice uno dei colonnelli del sindaco.

Che già studia la prossima mossa per incalzare il governo e costringerlo alla rincorsa: il Jobs Act per il rilancio dell'occupazione.

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