Orsoni molla la poltrona e spara a zero sui suoi Ora prepara la vendetta

Il sindaco di Venezia costretto alle dimissioni si sfoga: "Partito ipocrita". I pm: i dirigenti lo obbligavano a prendere tangenti

Orsoni molla la poltrona e spara a zero sui suoi Ora prepara la vendetta

L'amarezza e la rabbia sono indirizzate tutte agli «ipocriti» e «opportunisti» del Pd, a partire dal segretario Renzi («Un superficiale»), per avergli rovesciato addosso il ruolo di capro espiatorio delle mazzette Pd-Mose, costringendolo a dimettersi dopo che nemmeno 24 ore prima aveva annunciato di voler restare al suo posto.
Il pressing su Giorgio Orsoni, avvocato di antica famiglia veneziana a lungo corteggiato dal Pd per fare il sindaco di Venezia, era iniziato la sera prima, con annunci di dimissioni dei piddini veneziani e di area renziana, sostenuti dai vertici nazionali, ma è poi esplosa nella mattina, materializzandosi in una nota firmata dal vice segretario Pd Debora Serracchiani insieme al segretario regionale Roger De Menech che invitava Orsoni «ad offrire le dimissioni». Il segno inequivocabile della fine, con la durezza che caratterizza la segreteria Renzi quando si tratta di far fuori esponenti del partito o comunque in quota («Orsoni non è iscritto al Pd» si era subito affrettato a comunicare il sottosegretario Luca Lotti, braccio destro e sinistro di Renzi) diventati ingombranti e lesivi per l'immagine renziana. E così quando Orsoni si presenta nella sala di Ca' Farsetti, sede del Comune, srotola le «conclusioni molto amare», constata «che non c'è stata quella compattezza che mi era stata preannunciata» dal suo partito di riferimento, che invece gli ha fatto terra bruciata attorno per salvare se stesso. Dunque, dice Orsoni, si rende necessario un «segno della mia lontananza dalla politica». E ripete il concetto subito dopo: «È venuto meno quel rapporto tra la mia persona e la politica che mi ha sostenuto finora», leggasi il Pd. E di «reazioni opportunistiche e ipocrite di singoli esponenti» della maggioranza che lo sostiene, della sua «estraneità» al sistema, e del «venir meno da parte mia di qualsiasi fiducia nel rapporto con la rappresentanza politica che mi ha espresso» parla nella lettera con cui comunica le proprie dimissioni al Consiglio comunale.
Una parte importante l'hanno giocata i renziani in versione locale. Dopo la decisione del sindaco di non dimettersi, aveva subito rimesso le sue deleghe un assessore Pd e poi un altro consigliere con delega al Lavoro. Poi era arrivato il documento congiunto dei tre segretari Pd del Veneto (regionale, metropolitano e cittadino) di sfiducia a Orsoni. Quindi, l'iniziativa dell'ala renziana, impersonata dal «Renzi di Venezia», il consigliere comunale Jacopo Molina, presidente dell'associazione renziana «Adesso», con una lettera pubblica per chiedere un atto di «discontinuità radicale». Tutti contro Orsoni, che ora medita vendetta, con «strascichi lunghi e pesanti» anche verso gli esponenti Pd che lo hanno trattato come un «ladro» da allontanare (l'ex bersaniana e ora renziana Moretti in cima alla lista).
L'ex sindaco (anche se le dimissioni non sono applicabili immediatamente) è stato scarcerato dopo aver spiegato ai magistrati chi e come venivano raccolti i soldi per finanziare la sua campagna elettorale. Tre nomi precisi del Pd: i due deputati Zoggia e Mognato, e il big del Pd veneto Marchese (arrestato). Il parere favorevole della Procura di Venezia alla richiesta di revoca degli arresti ha confermato la versione di Orsoni, rappresentato come un utilizzatore finale di fondi illeciti ma «suo malgrado». Scrivono i pm: «Quanto alla decisione di accettare finanziamenti provenienti dal Consorzio, (...) il candidato era quasi obbligato ad accedere alle consuetudini funeste dei finanziamenti neri, adeguatamente rappresentategli con argomentazioni serrate dai tre responsabili del partito, come unico mezzo per conseguire il successo finale».

Insomma Orsoni non poteva che farsi finanziare così, anche se con fondi dubbi, e anche se non è l'ultimo arrivato ma il più noto avvocato amministrativista del Veneto, e dunque è difficile immaginare che non si rendesse conto di quel che accadeva sotto i suoi occhi. Così la Procura acconsente al patteggiamento. Ma l'ultima parola spetta al gip, che si pronuncerà nei prossimi giorni. E che potrebbe anche rigettare la pena patteggiata di quattro mesi perché troppo leggera.

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