Passera dà credito alle imprese e convoca le banche sui prestiti

Stretta sui finanziamenti, il ministro dell’Economia convoca aziende e istituti finanziari per sbloccare la situazione. Confesercenti avverte: "È allarme usura"

Passera dà credito alle imprese e convoca le banche sui prestiti

Roma - Spread alle stelle, tasse che strozzano l’economia, previsioni sulla produzione pessime, recessione. Il governo trema e il ministro dello Sviluppo Corrado Passera scende in campo convocando per la settimana prossima banche e principali associazioni imprenditoriali. Il tema caldo è l’accesso al credito, capitolo già affrontato ieri con il numero uno dell’Abi, Giuseppe Mussari. Nei giorni scorsi Passera era stato spietatamente realista, riconoscendo che «l’Italia è nel pieno di una recessione che durerà per tutto il 2012. E aziende e famiglie si trovano a fare i conti con un vero e proprio credit crunch». Il credit crunch non è altro che una stretta creditizia e si ha quando le banche sono preoccupate della solvibilità di coloro a cui prestano i soldi. Gli istituti tirano i remi in barca, concedono prestiti a condizioni più rigide aumentando i tassi di interesse o chiedendo più garanzie. E di fatto negano ossigeno a un’economia già asfittica. Occorre, pertanto, rimuovere questo freno che penalizza le nostre aziende, sempre meno competitive rispetto a quelle tedesche, per esempio, che godono di condizioni ben più favorevoli.

Non solo. Le nostre aziende soffrono pure per l’altro handicap colossale: quello dei ritardi dei pagamenti da parte della pubblica amministrazione. Lo Stato, da noi, salda a 180 giorni, se va bene. In Campania ci sono casi di saldi a 600 giorni. In Germania a 35. Ovvio che così non va. E, strettamente legato alla difficoltà di accedere al credito, c’è anche il problema dell’usura. A spiegarlo, nei giorni scorsi, Marco Venturi, presidente nazionale di Confesercenti. Secondo il quale, «Sono centinaia di migliaia le imprese che si rivolgono agli usurai. Sono state 330mila in tre anni quelle che hanno chiuso per vari motivi, tra cui c’è anche l’usura», aveva detto Venturi. Insomma, un disastro. E il grido di dolore delle aziende adesso spacca i timpani di mezzo governo. Crescita, crescita e crescita, è la parola d’ordine. Anche se, a palazzo Chigi, si parafrasa Tremonti: il Pil non si fa per decreto. Una strada è senza dubbio quella di accelerare sulle riforme strutturali, una delle quali è quella sul mercato del lavoro.

Tema caldo su cui parte l’operazione check up. Sul disegno di legge già si intravedono modifiche. Le chiedono tutti: Confindustria, Pdl e persino Pd e Terzo polo. Monti lascerà fare, forte del gentlemen agreement con Alfano, Bersani e Casini: sì a ritocchi, no a stravolgimenti del testo. Soprattutto niente correzioni all’articolo 18 e alla flessibilità in uscita, capitolo sul quale s’è discusso fin troppo. Ma sulla flessibilità in entrata i miglioramenti sono scontati. Il tutto in un momento in cui arriva un altro pessimo giudizio del Wall Street Journal che stronca Monti: sul lavoro, un’occasione persa. «Roma non è stata costruita in un giorno. E sembra che anche la riforma del lavoro italiana sia un progetto di lungo termine - è il giudizio del quotidiano - Monti ha dovuto annacquare la riforma dell’articolo 18. Questo è preoccupante». E ancora: «Monti è stato costretto a un compromesso perché lo riteneva necessario per assicurare altre riforme vitali. Ma se le concessioni accordate continuano a far sentire le imprese non in grado di assumere o licenziare, un’opportunità d’oro potrebbe essere stata persa».

E in effetti le imprese mugugnano.

La presidente di Confindustria Marcegaglia è chiara: «Noi, ovviamente, siamo responsabili: nessuno sta chiedendo di stravolgere tutto però ci sono alcuni punti, in particolare sulla flessibilità in entrata che se non dovessero venire cambiati dal nostro punto di vista non solo non creerebbero nuova occupazione ma rischierebbero di ridurla». I partiti, però, sembrano aver trovato un’intesa su partite Iva e contratti a termine e Pdl e Pd, ieri, parevano parlare la stessa lingua, seppur con toni differenti.

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