La patria di artisti e studiosi che il sisma non ha piegato

Nel centro del Mantovano sono nati lo scultore Gorni e il critico Pignatti. Il terremoto ha causato gravi danni, ma dal giorno dopo tutto è ripartito

La patria di artisti e studiosi che il sisma non ha piegato

Bello e forte è il vulcano. Vigliacco è invece il terremoto. Non preavvisa e non minaccia. Sconvolge vita e luoghi. Così è accaduto nelle città dell'Emilia qualche mese fa, tra Modena e Ferrara. Ma non si è detto abbastanza che quel terremoto ha colpito anche la Lombardia, e in particolare e insidiosamente la provincia di Mantova. Vero è che le reazioni sono state anche più vigorose di quelle degli emiliani. Il terremoto è stato vissuto come una vergogna da nascondere o una violenza da dimenticare. Ma chi, come me, è stato nel quadrilatero tra Poggio Rusco, San Benedetto Po, Moglia e Mirandola (quest'ultima in territorio modenese), ha visto quello che non avrebbe voluto vedere. E di cui pochi hanno parlato. A Poggio Rusco tutto il paese è stato ferito. E il campanile e la chiesa parrocchiale hanno subito i più duri colpi. Ma la città ha isolato gli edifici malati come se fossero cantieri di restauro. E ha ripreso la sua vita, nei negozi e nelle case, come se il terremoto non fosse passato. Muovendo da lì si arriva nel bellissimo paese di San Giacomo delle Segnate, che ha conservato la struttura di piccolo borgo rurale. All'apparenza nulla è mutato. Ma anche qui il terremoto è stato insidioso. Ha patito la chiesa parrocchiale, ma, soprattutto, poco fuori del paese, la maestosa Villa Arrigona, uno degli edifici più imponenti del territorio mantovano.
Per molti anni in abbandono, Villa Arrigona era stata da poco restaurata. Fa soffrire oggi vederla come un corpo ferito. Il lungo prospetto, restituito alla originaria bicromia, è ora in più parti lacerato, con crolli di comignoli e pinnacoli. Quasi un dispetto sembra vedere sporcate le ritrovate armonie. Analoga sensazione si prova davanti al più importante monumento mantovano fuori Mantova, l'Abbazia di San Benedetto in Polirone a San Benedetto Po con la grandiosa Basilica edificata da Giulio Romano.
Dopo anni di sforzi e di restauri, l'Abbazia fu riaperta con diverse e anche curiose sezioni museali. All'interno, entro una meravigliosa cornice dipinta da Correggio, e solo ultimamente rivalutata, è ora conservata una preziosa replica de «L'ultima Cena» di Leonardo dipinta dal pittore veronese Francesco Bonsignori e restituita a una soddisfacente lettura dopo un lungo restauro. Spaesati in quegli ambienti sono una mirabile acquasantiera romanica, la Madonna con il Bambino di Antonio Begarelli e il Baubau, un fantoccio di cartapesta di tradizione popolare per allontanare i malefici.
Ma il paese che ha le ferite più gravi e capillari è Quistello, patria di artisti e di studiosi: dal pittore chiarista Pio Semeghini allo scultore e architetto Giuseppe Gorni, al critico d'arte Terisio Pignatti, al bizzarro artista Claudio Baroni, fino al più grande di tutti, il cuoco Romano Tamani, inventore, come ai confini del mondo, dell'Ambasciata. Intorno a lui distruzione e rovine: la chiesa con il soffitto crollato, il municipio a soqquadro con i muri lacerati, la bellissima villa gonzaghesca di Gaidella, con gravi crolli e l'amorosa proprietaria, Azzurra Fulgeri, che, per non abbandonarla, ha passato lunghe notti in automobile. Romano ha pagato con un brindisi: nella sua cantina sono saltate 3.000 bottiglie, ma l'attività, sin dal primo giorno, è ricominciata. Da qui si può partire. Da queste confortevoli stanze dove, tra tavoli e trasparenti cucine, Romano vigila, conversa, conforta, riceve vescovi e sindaci, ministri e direttori di giornali, magistrati e industriali non si avverte che tutto intorno un mondo d'incontri, di commerci, di affetti, è frantumato.
All'Ambasciata ci si sente come in una corte ritrovata, in un teatro preparato per innumerevoli stagioni di recite, sempre nuove, mai replicate, con il magister ludi che accompagna piatti abbondanti a fulminanti battute, assaggi golosi, in competizione con i commensali, ma come per fortificare il loro godimento, a definizioni argute e impietose, con voce roboante, miscelando un italiano rotondo a un dialetto stretto e certamente circoscritto, con una inflessione piuttosto emiliana che lombarda.
Romano è un attore debordante in scena, il Falstaff della cucina, cerimonioso e implacabile, divertito per il mondo che ha creato, ampliando a dismisura, o a misura del suo corpo, la piccola locanda. Gli sta a fianco il fratello Carlo Francesco, misurato e compiaciuto ma intelligentissimo a cogliere gli umori e le situazioni che si generano in quel teatro. E quando i riti sono stati celebrati, e la serata tra sorprese e battute si avvia verso la notte, è pronto, alla guida della sua Alfa Romeo, ad accompagnarmi nel percorso di ricognizione delle meraviglie nascoste di Quistello e Nuvolato.
Come si diceva, il piccolo paese, in particolare la frazione di Santa Lucia, è il luogo di origine di Giuseppe Gorni, dimenticato artista che più di ogni altro ha definito un'estetica padana, in una imprevedibile miscela di romanico e Neorealismo.
A Quistello e Nuvolato ne lascia testimonianza sui muri, con la tecnica del graffito: sulla casa del veterinario la nascita del vitellino, sulla facciata del mulino i fornai che fanno il pane, sulla palazzina dell'Enal i giocatori di carte, sul fianco della scuola materna un girotondo di bambini. Straordinario gusto e sensibilità caratterizzano l'impresa di Gorni, circoscritta nella sua terra d'origine.
Quasi del tutto ignorata è la sua attività di architetto in edifici pubblici e privati, dalla propria casa, con uso impareggiabile del laterizio e riferimenti a stilemi romanici e gotici, alle scuole elementari, monumentale edificio di semplice e sofisticatissima concezione, con le colonne ribassate e le arcate riprese dal fianco del Duomo di Modena.
Ma è dai dettagli, dai ferri battuti alle cornici, nell'intreccio e nella tessitura dei mattoni, che Gorni rivela la sua sobria raffinatezza. E poi lo troviamo nel cimitero di Nuvolato dove egli immagina l'ingresso con due pilastri fortificati di mattoni, verso il quale si avvia una contadina con il fazzoletto annodato sulla testa, di corporatura pesante: una scultura di bronzo, a terra, di commovente umanità. All'interno diversi monumenti funebri, piuttosto architettura che scultura, con grandi blocchi di pietra grezza, che potrebbero sembrare prove di ricerca astratta, se non fossero forme arcaiche, come sarcofaghi antichi, e in particolare quella su cui sono poeticamente ricordati i propri familiari e annunciato il suo stesso destino. Lo ritroviamo, Gorni, nella felice soluzione di una rotatoria, con due piante secche di gelsi in bronzo, in concorrenza con la vera natura e in prossimità di un deposito di sanitari che sembrano un beffardo richiamo all'orinatoio di Duchamp, l'artista più lontano da Gorni, che pur visse negli stessi anni a Parigi.
Il viaggio notturno con Carlo Francesco, si conclude, prima del congedo nella frazione di San Rocco, davanti al monumento al Capolega, supremo omaggio al mondo contadino e alle sue lotte, in un richiamo umano e religioso all'Angelus di Millet e al Quarto Stato di Pellizza da Volpedo.

Più grande del vero, il Capolega è la statuaria risposta alla retorica atletica del fascismo: un lavoratore affaticato e orgoglioso, che rivendica la sua dignità nel lavoro dei campi. Intorno, ancora intatta, la fertile campagna padana.
(6. Continua)

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