Tra Pd e 5 Stelle non c'è l'ombra di un programma

Il M5S si è rivelato un’armata Brancaleone. E gli 8 punti di Bersani sono così generici da non convincere nessuno

Tra Pd e 5 Stelle non c'è l'ombra di un programma

I voti raccolti da Beppe Grillo sono in gran parte ballerini. Provengono da una fascia di elettori da anni in cerca di qualcuno in grado di far saltare il banco. Gente probabilmente non affascinata dalle idee del comico, peraltro mutevoli o comunque non tali da meritare di essere adottate in blocco; fra l'altro, temo che pochi le conoscano, forse manco lui, il leader del Movimento che il mondo tremare fa. Sbaglierò, ma una massa di coloro che hanno scelto di andare all'avventura con l'istrione ligure non si è posta il problema di quale sia il traguardo: naviga al buio e non se ne preoccupa.

Lo stato d'animo che ha indotto un esercito di cittadini a seguire lo stravagante uomo di spettacolo è simile a quello che in passato spinse una folla a correre appresso a Umberto Bossi. Probabilmente, la base dei tifosi di Grillo è la stessa che ebbe fiducia, una ventina di anni orsono, nella Lega e in Forza Italia. Il sistema politico-istituzionale italiano è marcio - inadeguato - da parecchio tempo, ma i partiti tradizionali, per vari motivi, tra cui l'istinto di autoconservazione, non sono mai riusciti a riformarlo. Il popolo (una larga fetta) ne è consapevole, è stanco morto dei bizantinismi e dei minuetti del Palazzo, cosicché ogni volta che si palesa sul mercato elettorale una novità, qualsiasi novità, una forza inedita in grado di suscitare un minimo di suggestione, vi si aggrappa nella speranza di avere trovato finalmente il carro giusto per uscire dallo stallo.

Finora alle illusioni sono subentrate le delusioni. Per quale ragione? Semplice: la maggioranza assoluta in Parlamento non basta ad apportare cambiamenti radicali al sistema, che è bloccato da una Costituzione di ferro, immodificabile se non col consenso dei due terzi delle assemblee. Non c'è santo che tenga: rabberciare la Carta è un'impresa titanica, riscriverla è un'utopia. D'altronde, se non la stravolgi, sei condannato all'immobilità. C'è un secondo aspetto da non sottovalutare. Ogni maggioranza vista all'opera sin qui era composta da alcuni partiti, spesso non omogenei, ciascuno dei quali mirava a tutelare i propri interessi, infischiandosene del bene comune: quello di depennare vecchie leggi e di approvarne altre in chiave moderna.

Insomma, i governi di coalizione non funzionano. Lo hanno sperimentato Romano Prodi e Silvio Berlusconi, i quali immancabilmente hanno litigato con i propri alleati, pregiudicando l'efficienza dei gabinetti che presiedevano. L'elettorato non va tanto per il sottile e, davanti ai fallimenti a ripetizione degli esecutivi, ha maturato la convinzione che il ceto politico sia inaffidabile; peggio: indegno. E non ha torto. Perché lorsignori, nell'impossibilità di procedere alle grandi riforme, non hanno fatto nemmeno quelle piccole che, invece, erano attuabili. Per esempio, l'eliminazione della custodia cautelare (vergogna nazionale) o la sostituzione della legge sulla diffamazione a mezzo stampa con la normativa anglosassone. Robetta che si poteva espletare in cinque minuti.

Se aggiungiamo che la cosiddetta Casta si pappa il finanziamento pubblico dei partiti, mantiene in vita mastodonti quali le Regioni, le Province, le Comunità montane, due Camere (945 parlamentari) e una pletora di municipalizzate, Authority eccetera, ovvio che non aumentino soltanto i costi della politica, ma anche il disprezzo popolare verso i rappresentanti della politica stessa. Nei cui confronti a ogni consultazione si sviluppa addirittura una sorta di odio che funge da propellente per i movimenti all'esordio. Negli anni Settanta prosperarono gli extraparlamentari, i gruppi (e i gruppettari), Lotta continua, i maoisti, le Br e Prima linea in un crescendo di rabbia sociale che pareva implacabile. La fase violenta durò fino agli anni Ottanta inoltrati. Quindi venne, ribadisco, la Lega, che con foga dirompente consacrò sindaco di Milano un allievo di Bossi, Marco Formentini.

Subito dopo irruppe sulla scena Forza Italia, che mutò il corso della storia, ma non influì sui cattivi costumi dell'amministrazione: la Seconda Repubblica non è mai nata. E non nascerà neanche con l'avvento dei grillini, figli dello stesso malessere incurabile che agitò le generazioni del secolo scorso. Grillo è stato abile nel cavalcare la solita ira funesta imperversante da decenni, l'ha organizzata con mezzi telematici, si è inventato un modo originale ed efficace di comunicare con gli adepti, ha acceso la fantasia di ragazzi e adulti, però, adesso che ha occupato centinaia di scranni, il Movimento 5 Stelle ha disvelato la sua vera natura: è un'armata Brancaleone priva di bussola politica. Almeno fino a oggi, non ha dato l'impressione di avere obiettivi raggiungibili né ha fornito indicazioni di come intenda recuperare le risorse idonee a realizzare certe ambizioni, all'altezza delle quali non sembra essere.

Dal che si evince che il desiderio di Pier Luigi Bersani di ottenere il supporto di Grillo onde costituire un governo resterà un sogno, e assai ingenuo. Tanto più che gli otto punti programmatici del segretario pd e aspirante premier sono talmente generici e fumosi da non persuadere nessuno, neppure il più visionario dei grillini.

I quali grillini si guarderanno dal mettere piede a Palazzo Chigi e dintorni, consci di non essere pronti a guidare non dico il governo, ma neanche un tram. La loro forza consiste nel bluff, nel far credere di essere ciò che non sono: sapienti. In realtà, sono pericolosi solo perché pasticcioni. Se muovono un dito si sgonfiano, e disperderanno i consensi.

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